Possiamo continuare qui la discussione sorta poco fa nella stanza dei modelli e quindi OT per quel luogo.
Su Canazei 100 anni fa, è possibile che in direzione del passo Pordoi allora non ci fossero boschi.
Ma le cartoline del buon Maurino, nella direzione opposta mostrano boschi, che dal colore si direbbero a prevalenza di peccio, come adesso.
Le valli alpine in generale sono luoghi poco ventosi e questo è uno dei motivi della grande diffusione del peccio.
Un altro motivo secondo me è la alta germinabilità del suo seme e la resistenza delle piantine al gelo, pur crescendo più velocemente del larice.
Poi credo che secoli fa l'abete bianco fosse assai più presente e che sia più lento del peccio a riprendersi le radure di taglio.
Naturalmente tutte queste considerazioni mi portano a pensare che, come ho scritto nell'altro TD, Vaia sia stata un'eccezione unica nella storia alpina, e che sia senz'altro dovuta al surplus di energia di origine antropica.
Ultima modifica di alnus; 20/01/2023 alle 18:55
Come prova dovrei portarti gli appunti di selvicoltura applicata oppure il libro di Del Favero del 2004.
Ma comunque, raffazzonando un po' quel che mi ricordo:
- fino ai primi del '900 non c'era un bosco (inteso alla maniera moderna) sulle montagne, tutti pascoli (e qui salta ogni possibile confronto con i danni di Vaia); al massimo le faggete erano ben estese, ma il faggio è veramente la pianta più forte di tutti ad accaparrarsi il territorio;
- anni '20 autarchia, piantumazione con scopiazzatura del modello tedesco, ossia abete rosso sulle montagne (sopravvive ancora bene sulle prealpi trevigiane, dove a 1400-1500 di quota vedi la linea fatta col righello tra pecceta artificiale e prato d'alta quota), insieme al pino nero sui calcari e, più giù, altri pini come lo strobio;
- fine seconda guerra mondiale boschi distrutti, allora completamento del lavoro di ''nobilitazione'' dei boschi attraverso, nuovamente, conifere; abete rosso sempre in pole, come dici era facile da diffondere; piantare abete rosso era anche un'opportunità economica per le famiglie locali, che avendo campi e orti bombardati vedevano una fonte di reddito a lungo termine nelle piantagioni di conifere;
- anni 50-70 feste degli alberi, e giù di nuovo abeti, larici e faggi rispettivamente piantati dai bambini a quote improponibili (300-700);
- anni sempre 50-70 abbandono ''elegante'' dei pascoli, previa piantumazione a fini ''estetici'' (e forse anche un po' di reddito) di conifere.
Ecco qui un esempio di lembi di pecceta piantati negli anni '20, belli scuri e quadrati, a 1300-1400 di quota e direttamente sopra l'ostrio-faggeta xerica, molto più rappresentativa della reale composizione del bosco a quella quota e in quell'area geografica (prealpi trevigiane).
Poi in mezzo ci sono anche dei larici, piantati anche loro col righello appena sotto al prato d'alta quota.
Questo per quanto riguarda le PRE-alpi, dove Vaia fece la maggior parte dei danni.
Riguardo alle peccete ''plurisecolari'' (lo disse il TG2 Dossier, poi non importa se il turno medio al di qua del Brennero si aggira sui 90-120 anni) delle Alpi, penso appunto a quella di Paneveggio, ma siccome si parla di abeti ben anzianotti io non so quanto fossero alti nel 1966 perciò non posso fare confronti, come non se ne possono fare di realistici prendendo in considerazione una sola valle (è come farlo coi downburst).
E prima del '66, considerando i tempi di ritorno di un evento del genere (poniamo di volare indietro alla fine del 1800, tanto per dire), si ritorna al punto 1, cioè all'assenza di peccete pure/a tappeto sulle Alpi - quantomeno fino al settore mesalpico incluso - perché c'erano più pascoli che altro.
Parlare di prove magari è ardito, ma di sicuro sono tanti indizi.
Indizi, invece, del fatto che Vaia non abbia precedenti ancora non ne ho e continuo a non capire come possano saltar fuori.
Posso supporre a tutto spiano che Vaia sia stata la tempesta più forte di sempre, ma oltre alle prove mi mancherebbero anche, appunto, gli indizi.
Dunque confrontare i danni del 2018 su boschi monospecifici ''intensivi'' che c'erano con i danni del '66 (o prima) su boschi monospecifici che invece NON c'erano (o non così, parlando soprattutto di statura delle piante) rimane per me una supposizione tanto verosimile quanto fantasiosa.
Sarebbe come dire che io ho la febbre perché il mio termometro rileva 37.2° mentre tu non ce l'hai perché non hai il termometro a casa: faccio ''notizia'' io in qualità di malato, ma magari tu hai 38.3° e non lo sai.
E' proprio una questione ''strumentale''.
Le faggete, per contro, hanno subìto molti meno danni e le zone dove c'è abete bianco meno ancora, sono pezzi di foresta ben misti che sanno il fatto loro in termini di resistenza alle tempeste.
Le peccete non solo sono esageratamente diffuse in lungo e in largo ma l'abete rosso ha le radici talmente superficiali che favorisce l'effetto domino sul resto delle piante, ben spinto anche dal fatto che, a quote basse, la chioma dell'abete rosso è ''a tendone'', quindi intercetta tutte le bave di vento (che quando sono forti vincono a occhi chiusi). Non è come, per esempio, a casa sua - vedi in pieno Cadore o a Cortina - dove le fronde di abete sono piatte, tagliando l'aria.
Ultima modifica di DuffMc92; 20/01/2023 alle 21:53
Mi rivolgo a DuffMc92 senza citare per non appesantire.
20230122_140904.jpg
Per esempio in questa foto, scattata dalla Marzola, il dosso sottostante, che si trova ad Ovest del lago di Caldonazzo, si chiama Piani di Castagne ( m 800 - 1000).
A me fa pensare che nell'ottocento fosse un castagneto, quello sì piantato, e che, non più coltivato, sia stato ripreso dalla vegetazione spontanea alpina, appunto in gran parte pecci e larici mescolati e anche un bel po' di faggi.
Posso sbagliarmi, ma non ce li vedo i forestali a fare una piantagione così omogeneamente mischiata.
Sul fatto che nell'ottocento ci fossero solo pascoli, penso che invece almeno nei versanti a bacìo, inadatti ad altri usi, il bosco ci sia sempre stato.
Ultima modifica di alnus; 29/01/2023 alle 10:34
Per Heinrich, sì vero, adesso il peggio è il bostrico.
Ho visto la scorsa estate il Livinallongo e lì ormai non ci sono più alberi vivi.
Tutte le Dolomiti rischiano ciò ed è orribile.
Un insetto
Ips typographus - Wikipedia
Non ci sono studi di palinologia nell'area?
Magari cercando su Google Scholar con parole chiave oppure tentare con Elicit: The AI Research Assistant, il recente motore di ricerca con una IA dietro (presa da chatGPT) cui bisogna fare la domanda in inglese e non per parole chiave.
Le foreste di abete rosso pre-vaia in fiemme e fassa sono per lo più nate nel dopoguerra, con grandi distese monovarietali e della stessa età. Queste sono state le più vulnerabili al vento della tempesta, ovviamente. Adesso il bostrico sta dando una mazzata potenzialmente (la dove non lo sia già stata) ben più grave.
È chiaro che da quella notte l’ecosistema forestale dolomitico passerà per un radicale cambiamento, a cominciare dalle ripiantumazioni, pianificate in modo da avere un bosco più diversificato (prevedendo, ad esempio, una presenza più importante del larice, che com’è noto è più resistente agli eventi avversi grazie all’apparato radicale che si sviluppa più in profondità).
Il problema del bostrico inizia a farsi davvero importante in tantissime vallate altoatesine gli ettari colpiti seriamente sono oltre 5000. Al momento il proprietario dei terreni infestati sono tenui a tagliare le piante malate con un aiuto di 40 euro a pianta. Al contrario c'è una multa per mancata cura forestale.
Al momento sono stati stanziati sempre da "Mamma Provincia" (come viene chiamata in Alto Adige) oltre 21 milioni di fondi per ripulire i boschi danneggiati da Vaia e dal successivo Bostrico .
Notizia di ieri è che sempre Mamma Provincia ha stanziato 300mila euro per la ricerca contro il bostrico ricerca che sta interessando UNI Bolzano, Eurac, UNI Padova, UNI Vienna
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