
Originariamente Scritto da
Roberto MM
IL TRUCCO DEL PONTE. Una volta, oltre ai paparazzi, in via Veneto c’era l’Iri, l’istituto per la ricostruzione industriale creato da Alberto Beneduce durante il fascismo con capitali pubblici. Quando lo Stato imprenditore è passato di moda, l’Iri ha perso fascino, potere e aziende. Le imprese pubbliche sono state privatizzate e i soldi sono finiti a tappare i buchi di bilancio.
Ma non tutti i soldi. Nello scorso novembre, quando l’Iri ha chiuso i battenti, in cassa avanzava ancora la liquidità di alcune cessioni. I tre liquidatori dell’ente di Stato, il professor Piero Gnudi di Bologna e due allievi dell’ex ministro prodiano Enrico Micheli, hanno preso questa somma e l’hanno versata in Fintecna, una società controllata al 100 per cento dal ministero dell’Economia. Sull’ultimo bilancio di Fintecna figura un attivo patrimoniale totale di 8,2 miliardi di euro. Di questi, 5 miliardi e 400 milioni sono liquidi con appena 636 milioni di debiti. Una situazione senza uguali fra le imprese italiane e rara anche a livello internazionale.
Con il contenuto di questa cassaforte sarà iniziato il ponte. Fintecna, infatti, è l’azionista principale della Stretto di Messina, la società per azioni incaricata dell’opera. I due manager chiave sono gli ex liquidatori Iri: Maurizio Prato comanda a Fintecna, Pietro Ciucci è amministratore delegato di Ponte sullo Stretto. Gli altri azionisti sono Rete ferroviaria italiana, cioè le Fs, l’Anas, e le due regioni interessate, Sicilia e Calabria. Sono quattro partner problematici, con importanti problemi di bilancio e dubbi di opportunità politica crescente. Chiaravalloti, schiaffeggiato in pubblico per l’audace statuto regionale, è in asse con Mario Tassone, polemico vice del ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi e ras dell’Udc in Calabria. «Il peggio è successo in agosto», dice Alberto Ziparo dei comitati no ponte e coautore de Il ponte insostenibile, «quando il sindaco messinese Buzzanca di An, un ultras del ponte, si è reso conto dell’impatto dei lavori sulla sua città e la sua giunta ha votato una delibera molto critica».
Anche se gli enti locali si defilano, sarà Fintecna a pagare il 40 per cento delle opere che spettano alla parte pubblica. In altre parole, i ricavi delle privatizzazioni, eseguite per migliorare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un’opera che indebiterà lo Stato. Per carità, questo lo dice Diario. La Ponte sullo Stretto sostiene invece nel suo studio di fattibilità finanziaria che il ponte, oltre a legare Scilla e Cariddi, a realizzare un ponte con il Maghreb e tante altre cose bellissime, farà guadagnare soldi a palate. Negli studi previsionali, scrive Ciucci, «il valore attuale netto economico risulta sempre positivo (i benefici superano i costi), da un minimo di 1,3 miliardi di euro fino a un massimo di 4,7 miliardi».
E non basta. Alla fine della prima concessione (annus domini 2042) lo Stato potrà rimettere in gara la sua parte e ricavare 12,8 miliardi, se va bene, o 6,2 miliardi, nello scenario a crescita bassa. Com’è possibile tutto questo? Ovvio, con il project financing.
da cheope a berlusconi. Il project financing è una leggenda metropolitana applicata all’economia. Afferma che sia possibile costruire una grande infrastruttura in partnership fra lo Stato e i privati abbattendo le spese dello Stato e facendo guadagnare i privati con lo sfruttamento della concessione. Pedaggi e biglietti, in sostanza. Al mondo non esiste un solo caso di grandi dimensioni in cui questo schema abbia funzionato. Come ai tempi di Cheope, le infrastrutture sono un bagno di sangue. Per informazioni maggiori si può chiedere ai piccoli azionisti o ai gestori di Eurotunnel che, peraltro, è un’opera utile come il Canale di Suez (altra catastrofe finanziaria).
In Italia il maggiore esempio di project financing è quello dell’alta velocità ferroviaria. L’architettura finanziaria era identica a quella del ponte: lo Stato mette 40, i privati 60. Ecco com’è andata. I privati, per lo più banche, hanno comprato un gettone di ingresso da 1 miliardo di lire in Tav spa e poi si sono rifiutati di aderire ai successivi aumenti di capitale. Alla fine, la Tav se l’è ricomprata tutta lo Stato e l’ha affidata a Infrastrutture, una spa pubblica al 100 per cento guidata dal reggino Andrea Monorchio.
Ai cittadini il supertreno doveva costare 16 mila miliardi di lire con fine lavori nel 2001. Poi la cifra è un po’ salita e i tempi sono un po’ slittati: 40 mila miliardi di lire e fine lavori al 2003-2004. Oggi si parla di 52 mila miliardi e fine lavori nel 2007-2008. Un successone. E, dato che la meritocrazia dilaga, l’amministratore delegato della Tav ai tempi di Lorenzo Necci, Ercole Incalza, è stato mandato da Lunardi a Bruxelles per convincere l’Ue che il ponte andava messo fra le opere con priorità 1, le più urgenti. «Le pressioni del governo italiano a livello europeo sono state enormi», racconta la senatrice dei Verdi Anna Donati. «La commissaria ai Trasporti Loyola de Palacio, peraltro, è rimasta allibita quando le ho fatto notare che il ponte è in priorità 1, mentre la ferrovia che porta al ponte è in priorità 3».
L’inserimento del ponte nella lista delle opere europee strategiche è di sicuro il risultato migliore della diplomazia berlusconiana. In cambio, la Stretto di Messina potrà ricevere un finanziamento del 10 per cento. «E stanno lavorando», aggiunge Donati, «per portare questa cifra al 20 per cento». Fino a qui, europei o italiani, gli euro del ponte sono sempre pubblici. E i privati?
Lo schema di finanziamento recita testualmente: «L’infrastruttura non prevede l’erogazione di contributi a fondo perduto da parte dello Stato. La fattibilità finanziaria dell’opera sarebbe infatti assicurata da un aumento di capitale di Stretto di Messina nell’ordine di 2,5 miliardi di euro. Il capitale di rischio verrebbe adeguatamente remunerato e, naturalmente, recuperato durante il periodo di gestione». In quanto al 60 per cento privato, sarà coperto «attraverso finanziamenti tipo project finance contratti in più tranche sul mercato intrernazionale dei capitali garantiti unicamente dai flussi di cassa attesi per il progetto. In tale ambito è inoltre certamente auspicabile il coinvolgimento nell’iniziativa di Infrastruttture spa, considerato il suo elevato rating e la possibilità di concedere finanziamenti per durate più lunghe rispetto a quelle normalmente praticate dal sistema creditizio».
Traduzione. Lo Stato, travestito da società per azioni, mette il 40 per cento. Il resto lo chiediamo alle banche italiane ed estere, come ai tempi della Tav. In caso le banche abbiano dubbi sul fatto di recuperare «naturalmente» l’investimento con i pedaggi, lo Stato, travestito da un’altra spa (la Infrastrutture dell’ex ragioniere generale Monorchio), offrirà alle banche una garanzia solida: se stesso.
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