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Partire. Pensieri d'estate
Estate 1998.
Il sole batte caldo sui Nebrodi.
La calura non fa uscire di casa nessuno.
Le cicale, assiepate in luoghi nascosti, cantano
il loro esistere.
Tutto è fermo.
Niente vento, solo l'azzurro vivido del mare,
la sagoma grigia di Alicudi soffocata dalla foschia,
a farmi compagnia.
Il gusto della granita ancora in bocca, a raffreddare
i pensieri che bollono sotto
la canicola che indispettisce.
C'è odore di campagna.
Una vecchia porta a spasso la propria
malinconia, e la propria sofferenza, acuita dal
calore.
Ci siamo abituati.
Non andrò a mare oggi. Non ne ho voglia. Starò qui, in paese,
a bere bicchieri di vita.

Questa frizzante inquietudine che mi prende è strana: dovrei essere triste, nell'immobilità dell'estate mirtese. E invece no.
Mi piace quest'aria secca, in fondo, questa lieve brezza torrida dall'interno.
Verso il mare, è Malò a ricordarmi, col suo verde, che non siamo in Africa.

C'è chi dice che partire, andar via, lasciare tutto è un peccato: siamo noi a dover fare qualcosa per questa terra che in pochi chilometri abbraccia mari cristallini e monti innevati, campagne gialle e verdi colline, rigogliose pianure e brulli contrafforti.
Forse è vero.
In realtà, il peggior servizio che si possa rendere a una terra come questa è, una volta andati via, rinnegarla, sputarci sopra, calpestare quest'angolo di paradiso terrestre.
Io non voglio farlo, con tutte le manchevolezze che questa terra ha.
Ma lascerò agli altri, ai più coraggiosi, o forse a quelli che meglio si adattano a questa realtà, il compito di restare.
A me basta portarmi dentro, ovunque andrò, questi scorci di incantevole bellezza.
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