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  1. #981
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"


    Those who are not shocked when they first come across quantum theory cannot possibly have understood it. (N.Bohr, 1952)

  2. #982
    Uragano L'avatar di FunMBnel
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Eh beh... Non si può redistribuire ciò che non si crea.
    Neutrofilo, normofilo, fatalistofilo: il politically correct della meteo
    27/11: fuori a calci i pregiudicati. Liberazione finalmente.

  3. #983
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Con il discorso di ieri di Trump ci si potrebbe fare uno spettacolo comico di un’intera serata.
    Difficile fare una critica perché non c’è una cosa che abbia detto che sia vera solo insulti a tutti e battute da bambini dell’asilo.
    Intanto il nuovo presidente Canadese ringrazia e Powell…
    PelatodiMtimangioilcuore

  4. #984
    Uragano L'avatar di FunMBnel
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Non è il nuovo presidente è il nuovo primo ministro.
    Canada che dimostra che se di fronte ti trovi un deficiente il Paese si stringe attorno non a chi gli bacia le chiappe (per dirla alla Trump...), ma a chi gli dice di andare a farsi f.....e (bravi i conservatori che sono riusciti a distruggere un vantaggio di oltre 20 punti nei sondaggi in un mese...)
    Qualcuno la spina dorsale, il fatto di essere un Paese con un orgoglio, lo dimostra con i fatti.
    Altri... Un PhD in economia, già capo di 2 banche centrali (un Draghi on steroids praticamente) che dicesse che i presunti uomini forti come Trump o Putin e il loro agire da mafiosi possono infilarselo dove non batte il sole qui prenderebbe forse il 5% dei voti...
    Neutrofilo, normofilo, fatalistofilo: il politically correct della meteo
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  5. #985
    Vento moderato L'avatar di Gianni78ba
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Sempre del professor Sabatini di cui ho già pubblicato:

    Trump in un vicolo cieco - Fabio Sabatini

    Non passa giorno senza che Donald Trump pubblichi dichiarazioni esagerate o surreali sui suoi canali social. Un tweet di domenica scorsa fotografa bene la fragilità del castello di illusioni su cui ha costruito la sua politica economica:
    “Quando i dazi entreranno a regime, le tasse sul reddito diminuiranno sostanzialmente, forse saranno eliminate del tutto. Stiamo già creando un numero enorme di nuovi posti di lavoro, nuove fabbriche sono in costruzione e molte altre sono in programma. Sarà una pacchia per l’America: da ora in poi saranno gli stranieri a pagare le nostre tasse.”





    L’ultima frase è una mia libera traduzione di “The external revenue service is happening”, una formula volutamente suggestiva e vaga. In ogni caso, queste righe riassumono bene l’inconsistenza dell’intera narrazione economica trumpiana.




    I dati raccontano una storia completamente diversa. Le aspettative di inflazione sono in crescita (come mostra il primo dei due grafici qui sotto, tratto dall’indagine campionaria sulla fiducia dei consumatori condotta dall’University of Michigan), ma anche le aspettative di disoccupazione sono in netto peggioramento (si veda il grafico più in basso, tratto dal policy report del 24 aprile della Fed di San Francisco). Gli americani cominciano a capire che li attende un periodo di stagflazione: uno degli scenari macroeconomici peggiori, caratterizzato dalla coesistenza di inflazione elevata e disoccupazione crescente.








    Un risultato considerevole, se si considera che all’insediamento di Trump l’economia era in buone condizioni, non si è verificato alcuno shock esterno, e il peggioramento è interamente attribuibile alle azioni del nuovo presidente.
    Gli indici di fiducia dei consumatori sono ai minimi storici, mentre gli indici di incertezza iniziano a sfondare il tetto dei grafici. Per esempio, questo grafico (elaborato da Justin Wolfers sulla base dei dati della Fed di St. Louis) mostra l’andamento dell’indice di incertezza sulla politica economica degli Stati Uniti. Neanche la pandemia aveva prodotto una simile incertezza sulla direzione della politica economica.




    Se le aspettative sono sconfortanti, i dati reali non sono migliori. I prezzi hanno già iniziato a salire. Come mostra questo grafico tratto da uno short paper di Alberto Cavallo, Paola Llamas e Franco Vazquez, l’aumento non riguarda solo i beni importati da Cina, Canada e Messico, ma anche quelli prodotti sul suolo americano. Le cause sono note: le filiere produttive interrotte, l’aumento dei costi dovuto all’aumento dei prezzi degli input produttivi, e i rincari dovuti all’incertezza. Una spiegazione dei meccanismi che determinano queste dinamiche si trova in questo post.




    Con le elezioni di metà mandato ormai vicine, e una popolarità mai così bassa per un presidente neoeletto, Trump insiste nel denunciare come falsi i sondaggi. È paradossale che Trump accusi i media di diffondere fake news anche quando le notizie a lui sfavorevoli provengono da outlet amici come il Washington Post di Jeff Bezos, su cui è stato pubblicato il grafico che riporto qui sotto. Il 72% degli intervistati ritiene probabile che le politiche di Trump determineranno una recessione.








    L’amministrazione ha urgente bisogno urgente di ottenere una vittoria fiscale per stimolare la domanda e riportare l’economia su binari più stabili. Ma vista la situazione disastrosa in cui Trump ha trascinato l’economia, la semplice proroga del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA) difficilmente basterà a raggiungere questi obiettivi. Anche per questo, la maggioranza repubblicana nel Congresso si appresta a varare ulteriori sgravi fiscali per 1.500 miliardi di dollari da finanziare a debito, che si aggiungono ai 3.800 miliardi già inclusi nella proroga del TCJA.
    Ma a quale costo?
    In un contesto di aumento dei prezzi, fuga di capitali, crescita dei rendimenti dei titoli di Stato, incertezza alle stelle ed erosione della fiducia dei mercati verso gli Stati Uniti, nuove emissioni di debito costeranno moltissimo.
    Il grafico sottostante, tratto da uno short paper di Zhengyang Jiang, Arvind Krishnamurthy, Hanno Lustig, Robert Richmond e Chenzi Xu, mostra il disaccoppiamento tra l’andamento dei rendimenti dei Treasury Bond (misurati mediante lo spread rispetto agli equivalenti titoli di Stato tedeschi) e del dollaro osservata nell’ultimo mese. Una dinamica molto insolita: normalmente, rendimenti più alti attraggono capitali, rafforzando il dollaro. Oggi, no. È il segnale che non solo il Tesoro fatica a collocare i titoli, ma gli investitori stanno rivalutando l’intero spettro degli asset denominati in dollari.




    Il piano fiscale di Trump sembra avere una chance di funzionare solo nel caso in cui la Fed si comporti in modo accomodante, comprando i titoli di Stato e riducendo i tassi di interesse. Ma proprio a causa delle scelte dell’amministrazione, che hanno riacceso l’inflazione, è difficile che la Fed voglia assecondare Trump. L’obiettivo principale dell’autorità monetaria è tenere sotto controllo l’inflazione – come ho spiegato in questo post – e le prospettive inflazionistiche sono cresciute proprio a causa delle scelte dell’amministrazione. I dazi, le politiche di espulsione degli immigrati e l’estensione dei tagli fiscali spingono per un aumento del livello dei prezzi, che politiche accomodanti della Fed rischierebbero di alimentare significativamente.
    Trump si troverà quindi presto ad affrontare un dilemma. Probabilmente assisteremo a nuove pressioni sull’indipendenza della Fed, nel tentativo di spingere Jerome Powell a condurre una politica monetaria espansiva. Ma le minacce alla banca centrale potrebbero accelerare la fuga di capitali, il deprezzamento del dollaro e l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, determinando un aumento ulteriore del costo del finanziamento della spesa pubblica in deficit, e alimentando i dubbi degli investitori sulla solidità dei Treasury Bond.
    Il presidente sembra essersi chiuso in un vicolo cieco. Deve tagliare le tasse per tamponare gli effetti delle sue stesse politiche ma, proprio a causa di queste politiche, tagliare le tasse è diventato economicamente insostenibile e politicamente rischioso.
    Con Trump è impossibile fare previsioni affidabili, ma due scenari sembrano più probabili di altri. Il presidente potrebbe tagliare le tasse senza confidare nella “collaborazione” della Fed, utilizzando Powell come capro espiatorio da incolpare per il rialzo dei rendimenti dei Treasury e la prevedibile stagflazione. Oppure, potrebbe sfidare apertamente l’indipendenza dell’autorità monetaria, rimuovere Powell e i membri del Board of Governors non allineati (pur non avendone il potere legale), e sostituirli con dei lealisti pronti a condurre politiche monetarie accomodanti. Le conseguenze di quest’ultimo scenario per l’economia americana e il dollaro sarebbero disastrose sia nel breve sia nel lungo periodo.
    Tuttavia, gli oppositori di Trump hanno ben poco di cui rallegrarsi. Se Trump non potrà usare la leva economica per ottenere consenso prima del voto, potrebbe decidere di accelerare la costruzione dello Stato autoritario. In tal caso, assisteremo a un’intensificazione delle azioni antidemocratiche e illiberali dell’amministrazione. Arresti arbitrari di giudici e cittadini americani, repressione del dissenso, intimidazioni degli avversari politici, nuovi disastri diplomatici, reiterazione delle pantomime commerciali, fino alle interferenze sulla regolarità del voto, che già sono iniziate con la riforma di alcune regole elettorali varata a marzo nell’indifferenza generale.
    Oggi, la risposta più concreta al piano autoritario di Trump e i suoi oligarchi sembra venire dai mercati. L’economia, in un paradosso storico, potrebbe essere l’ultima linea di difesa della democrazia americana e della stabilità delle relazioni internazionali.
    Basterà?




    Post scriptum: Torno a ripeterlo, per l’ennesima volta, a beneficio di redazioni che rielaborano liberamente o copiano e incollano i miei post su testate online (spesso infilandoci in mezzo molta pubblicità): vi vedo. I Google Alerts funzionano molto bene.
    Sono felice se i miei thread sono utili a chi cerca di orientarsi nelle dinamiche economiche di questi tempi oscuri. Ma non approvo in alcun modo il copia-incolla — né la rielaborazione dei miei testi — per fini editoriali o commerciali.
    Non sono un giornalista, e il mio mestiere non è fornire contenuti ad accesso libero per testate che puntano solo a intercettare qualche clic in più sui propri Ad.
    La divulgazione è un impegno volontario, che richiede tempo, cura e responsabilità.
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  6. #986
    Uragano L'avatar di FunMBnel
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Intanto il mitico Mario pubblica i dati del primo trimestre.


    - Pil statunitense a -0,3% annualizzato nel primo trimestre. Le importazioni sottraggono un abnorme 4,8%, "restituito" per il 2,25% sotto forma di scorte, in anticipazione dei dazi. Consumi contribuiscono per 1,21%.
    - Vendite reali finali ad acquirenti domestici, cioè consumi privati, investimenti aziendali e residenziali, crescono del 3% annualizzato, poco meglio dello scorso trimestre ma bisogna considerare gli anticipi di acquisti per prevenire i dazi;
    - Indice dei prezzi core per consumi personali a +3,5% annualizzato e +2,8% tendenziale. Prezzi in riscaldamento prima di un'ondata di dazi, no buono.

    Vado pazzo per i piani ben riusciti mentre quell'altro demente totale continua a straparlare di sostituire le imposte sul reddito con i dazi.
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  7. #987
    Uragano L'avatar di Friedrich 91
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Citazione Originariamente Scritto da FunMBnel Visualizza Messaggio
    Intanto il mitico Mario pubblica i dati del primo trimestre.


    - Pil statunitense a -0,3% annualizzato nel primo trimestre. Le importazioni sottraggono un abnorme 4,8%, "restituito" per il 2,25% sotto forma di scorte, in anticipazione dei dazi. Consumi contribuiscono per 1,21%.
    - Vendite reali finali ad acquirenti domestici, cioè consumi privati, investimenti aziendali e residenziali, crescono del 3% annualizzato, poco meglio dello scorso trimestre ma bisogna considerare gli anticipi di acquisti per prevenire i dazi;
    - Indice dei prezzi core per consumi personali a +3,5% annualizzato e +2,8% tendenziale. Prezzi in riscaldamento prima di un'ondata di dazi, no buono.

    Vado pazzo per i piani ben riusciti mentre quell'altro demente totale continua a straparlare di sostituire le imposte sul reddito con i dazi.
    E, dulcis in fundo, Trump ha ovviamente dato la colpa al governo di Biden

    Pil Usa in contrazione, pesa il boom dell’import pre-dazi. Trump accusa Biden - Il Sole 24 ORE

    C'è poco da dire: da italiani dovremmo essere orgogliosi di cosa siamo riusciti ad esportare. Altrochè Parmigiano Reggiano, Prosecco e via dicendo, nulla è più un nostro marchio di fabbrica del dare la colpa sempre e comunque al governo precedente
    «L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono» (Giuseppe Prezzolini, 1921)

  8. #988
    Vento fresco L'avatar di Stefano Riccio
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Non ci avrei scommesso un soldo bucato sul segno + nel PIL dell'Italia nel primo trimestre dopo lo 0,0% dell'ultimo dello scorso anno e vista la situazione congiunturale, tra l'altro si rivede un segno + (+0,2%) pure in quello della Germania. Noi tra l'altro con +0,3% siamo quasi in media UE (+0,4%). Da notare che continua a correre la Spagna con +0,6% che vale un +2,8% tendenziale sul 2025 che non sarebbe tanto distante dal +3,2°C del 2024.

    Vediamo il prossimo come va con l'implementazione dei dazi del 2 aprile.
    Database dei record in Toscana: http://climaintoscana.altervista.org/
    Record assoluti: +43,1°C ad Antella il 06/08/2003; -26,0°C a Firenzuola l'08/01/1985.

  9. #989
    Vento moderato L'avatar di Gianni78ba
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Il "Pil negativo" e altri orrori dell’informazione economica italiana

    Le importazioni non "bruciano" il Pil, e il Pil non può essere negativo. Il modo in cui viene raccontata l’economia in questi giorni rivela il traballante stato di salute dell'informazione italiana








    Fabio Sabatini

    May 02, 2025

    La pubblicazione dei dati sul Pil americano nel primo trimestre del 2025 ha acceso il dibattito sui disastri economici prodotti da Donald Trump nei suoi primi cento giorni alla Casa Bianca.







    Per la prima volta dopo molto tempo, la variazione del Pil su base annua è risultata negativa, con una flessione del tasso di crescita dello 0,3%. Un dato significativo, se si considera che nell’ultimo trimestre del 2024 il Pil era cresciuto del 2,4%.
    Purtroppo, i media italiani sembrano essersi lanciati in una gara a interpretare questi numeri nel peggior modo possibile — a testimonianza del traballante stato di salute della nostra informazione economica.





    Anzitutto, come sempre in questi casi, abbiamo dovuto leggere di nuovo l’espressione “Pil negativo”. È un errore grossolano, imputabile per lo più ai titolisti costretti da limiti di spazio: non è il Pil a essere negativo, ma il suo tasso di crescita.
    Ancora più gravi, tuttavia, sono gli errori che gli editorialisti commettono sistematicamente nel tentativo di spiegare la flessione del tasso di crescita del prodotto americano. Questi sbagli non possono essere attribuiti ai titolisti e rivelano una seria carenza di conoscenze di base da parte di chi, al contrario, si presenta come esperto di economia.
    Per esempio, in un editoriale del Corriere della Sera dal titolo roboante (“Pil a -0,3%, l’import gonfiato dai dazi ha bruciato il 5% del Pil”), Federico Fubini, vicedirettore del quotidiano — che, come recita il suo bioblurb, si occupa “ogni giorno di economia e finanza da più di vent’anni” — scrive:
    “Questa corsa agli acquisti dall’estero per anticipare i dazi, peggiorando il saldo commerciale, ha affondato il prodotto interno lordo americano nel primo trimestre.
    Il commercio estero infatti ha impatto sul Pil per il saldo con l’estero: più esso è passivo e più sottrae alla crescita.
    E nei primi tre mesi dell’anno l’effetto di queste importazioni accelerate ha segnato, da solo, una contrazione del 5% (rispetto al trimestre precedente, stimato in proiezione annuale).”
    Si tratta di un errore significativo che, in buona sostanza, finisce per avallare l’idea cara a Trump – ed errata – che le importazioni siano un male per l’economia. Anzitutto, sgombriamo il campo dall’equivoco più importante: le importazioni non sono un male e le esportazioni non sono, di per sé, un bene. Il fine ultimo delle esportazioni sono proprio le importazioni. Ogni paese si specializza in ciò che sa fare meglio, utilizzando nel modo più efficiente possibile le risorse di cui è più ricco – per esempio in termini di capitale umano e capitale naturale – per potersi poi permettere l’importazione di beni nella cui produzione non gode di un “vantaggio comparato”.
    In altre parole, le importazioni consentono agli Stati Uniti di acquistare beni a prezzi inferiori rispetto a quelli che si determinerebbero producendo tutto sul territorio nazionale. Le risorse così risparmiate possono essere destinate ad attività più produttive, aumentando l’efficienza complessiva dell’economia e i consumi a parità di spesa — con vantaggi evidenti sia per gli Stati Uniti sia per i loro partner commerciali.
    Una spiegazione accessibile del ruolo dei “vantaggi comparati” si trova in questo ottimo post di Francesco Pigliaru, che consiglio di seguire.
    La decisione di importare più beni può influenzare il PIL in modo indiretto. Ma non è la stessa cosa. Che l’aumento delle importazioni faccia crescere o diminuire il PIL dipende dall’uso che si fa di quei beni e da molti altri fattori. In realtà, sono numerosi i casi in cui frenare le importazioni determina una riduzione del PIL, mentre l’aumento delle importazioni, spesso, determina un incremento del Pil.
    Ma il problema principale delle affermazioni di Fubini — e, a onor del vero, di molti altri, tra cui anche il Sole 24 Ore — è che le importazioni non sottraggono nulla né alla crescita, né al valore del PIL.
    L’import non ha “bruciato” proprio nulla, ci mancherebbe. I beni importati, che per definizione sono prodotti all’estero, non possono ridurre il PIL, che per definizione misura il prodotto interno lordo: ovvero il valore monetario dei beni e servizi prodotti all’interno del territorio nazionale, al lordo degli ammortamenti.
    L’equivoco nasce dalla formula che si trova in tutti i manuali di economia – o su Wikipedia, su cui probabilmente studiano alcuni giornalisti economici:
    Pil = Consumi + Investimenti + Spesa pubblica + Esportazioni – Importazioni
    Il fatto che le importazioni compaiano nella formula con il segno meno non significa, controintuitivamente, che sottraggano qualcosa al Pil. Sembra che le importazioni vengano sottratte, ma solo perché sono già incluse nei consumi, negli investimenti e nella spesa pubblica.
    Per capire meglio cosa accade, consideriamo il significato dei termini presenti nella formula:

    • I consumi comprendono i beni di consumo prodotti per i consumatori più i beni di consumo che si importano per i consumatori.
    • Gli investimenti includono i beni capitali prodotti per le imprese più i beni capitali che si importano per le imprese.
    • La spesa pubblica è costituita dai beni prodotti per il governo più i beni che si importano per il settore pubblico.
    • La differenza tra esportazioni e importazioni rappresenta tutto ciò che si esporta (per i consumatori, le imprese e i governi esteri) meno i beni importati per i consumatori, le imprese e il governo.

    Poiché la formula del PIL serve a calcolare quanto viene effettivamente prodotto sul territorio nazionale, e dato che le importazioni sono già conteggiate nei primi tre termini dell’addizione, l’ultimo termine le sottrae. Questo evita che il valore del Pil venga gonfiato in modo improprio e assicura che l’effetto complessivo di quanto prodotto all’estero sia, correttamente, pari a zero.
    Per esempio, nel primo trimestre del 2025, le importazioni statunitensi sono state probabilmente anticipate, poiché si prevedeva l’introduzione dei dazi. Se tali importazioni sono state vendute ai consumatori, sono state conteggiate positivamente nei consumi. Se si tratta di beni intermedi utilizzati dalle imprese come input, sono state contabilizzate positivamente negli investimenti. Se sono state utilizzate per produrre beni destinati all’esportazione, sono confluite positivamente nelle esportazioni. Se invece non sono state utilizzate affatto, sono state comprese negli investimenti come variazione positiva delle scorte.
    Perché allora gli economisti hanno deciso di scrivere la formula in modo così poco intuitivo nei manuali — aggiungendo le importazioni in modo invisibile ai consumi, agli investimenti e alla spesa pubblica, per poi sottrarle esplicitamente alla fine? Come ha spiegato Noah Smith, la ragione è che tutti gli elementi della versione dell’identità riportata nei manuali sono più semplici da misurare nella realtà. Non è facile determinare con precisione quale parte del valore di ciò che consumiamo e investiamo sia costituita da beni importati. Per questo, le agenzie governative nemmeno ci provano: si limitano a sottrarre le importazioni alla fine dell’equazione, in modo tale che le importazioni incluse nei consumi, negli investimenti e nella spesa pubblica vengano compensate.
    È fondamentale che l’informazione economica sia di qualità, per offrire ai cittadini gli strumenti necessari a valutare con obiettività le politiche adottate dai loro rappresentanti.
    Purtroppo, come spesso accade per i temi complessi — e non a caso oggetto di ricerca scientifica — i media italiani tendono più a generare confusione che a fare chiarezza.





    Post scriptum: Il prossimo post sarà dedicato agli effetti distributivi delle politiche economiche di Trump. Se l’argomento vi interessa, vi invito a iscrivervi alla newsletter per riceverlo direttamente via email. Ogni nuova iscrizione è un incoraggiamento a continuare questo lavoro di divulgazione.


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  10. #990
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Minky ha ricominciato a parlare di aumentare dazi, adesso sui film esteri...

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