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  1. #991
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    L’arte di togliere ai poveri per dare ai ricchi

    Le politiche economiche di Trump comportano un peggioramento del tenore di vita per tutte le classi di reddito, ad eccezione delle più ricche. Il bilancio finale è una redistribuzione al contrario








    Fabio Sabatini

    May 05, 2025
















    Uno degli aspetti più surreali e ingannevoli della comunicazione politica di Trump è l’insistenza sulla formula, volutamente vaga, di external revenue service. Con questa espressione, il presidente vuole far credere che, grazie ai dazi, la spesa pubblica americana sarà finanziata dai contribuenti esteri anziché da quelli americani, che invece potranno godere di una riduzione delle tasse. In altre parole, Trump rivendica una redistribuzione di ricchezza dal resto del mondo verso gli Stati Uniti, a beneficio soprattutto della classe media.
    In questo post cercherò di chiarire le reali implicazioni redistributive di Maganomics, per capire chi sono i veri vincitori e i veri perdenti delle proposte economiche di Trump — dai dazi ai tagli previsti delle imposte e della spesa pubblica.




    Anzitutto, è necessario chiarire una contraddizione fondamentale nella narrazione Maga, che spesso descrive i dazi come un’arma negoziale per ottenere accordi economici o politici, dopo i quali le barriere commerciali verrebbero rimosse. In altre parole, i dazi sarebbero solo una leva nella celebre art of the deal del presidente. Tuttavia, se i dazi sono soltanto uno strumento di minaccia e non una misura permanente, non produrranno alcun gettito. E senza gettito, non ci sarà alcun afflusso di ricchezza dall’estero con cui finanziare la spesa pubblica o ridurre le tasse.
    I dazi corrispondono a un aumento delle imposte sul consumo






    Se, invece, le barriere tariffarie dovessero essere mantenute, non attrarrebbero automaticamente risorse dal resto del mondo, come promette Trump. I dazi, infatti, sono pagati dai consumatori e dalle imprese del paese che li impone. Se le imprese estere riducessero i prezzi in misura pari al dazio, il prezzo finale non cambierebbe e il costo della tariffa non inciderebbe sul potere d’acquisto dei cittadini. Ma questo è uno scenario improbabile. Più verosimilmente, le imprese non abbasseranno i prezzi e i consumatori americani finiranno per pagare il prezzo pieno più il dazio.
    Ma non solo: anche i beni prodotti all’interno del paese sono destinati a salire di prezzo, a causa dell’aumento dei costi delle materie prime e dei beni intermedi utilizzati nei processi produttivi americani, dell’interruzione delle filiere e della contrazione dell’offerta generata dalla crescente incertezza. Ho spiegato nel dettaglio questi meccanismi in questo post: L’illusione protezionista.
    I dazi sono regressivi






    Dazi generalizzati come quelli imposti da Trump si configurano quindi come un’imposta generalizzata sul consumo – e le imposte sul consumo sono tipicamente regressive. Cosa significa? Un prelievo fiscale è progressivo se l’aliquota marginale aumenta con il reddito: in altre parole, chi ha una maggiore capacità contributiva paga una quota più elevata degli aumenti del proprio reddito. Al contrario, un’imposta è regressiva se pesa relativamente di più su chi ha redditi più bassi, imponendo oneri maggiori proprio a chi ha meno possibilità economiche.
    Perché le imposte sul consumo sono regressive? Perché l’aliquota (in questo caso, il rincaro dei prezzi dovuto ai dazi) è uguale per tutti, indipendentemente dal reddito. Tuttavia, l’impatto reale di questa maggiorazione varia molto a seconda della capacità contributiva. Le famiglie più ricche destinano solo una piccola parte del proprio reddito ai consumi quotidiani. Pensate, per esempio, a quale frazione delle entrate di Trump viene spesa per beni di uso comune: per quanto lussuoso possa essere il suo stile di vita, queste spese rappresentano una minima parte della sua ricchezza. Ora, immaginate quale quota del reddito di un pensionato medio è destinata al consumo di beni e servizi essenziali. Probabilmente la sua interezza.
    Secondo le stime del U.S. Bureau of Labor Statistics — riportate nella figura qui sotto, tratta da un policy brief del Peterson Institute for International Economics (PIIE) — il 10% più ricco della popolazione destina ai consumi circa il 34% del proprio reddito. Al contrario, il 10% più povero spende l’intero reddito, mentre il secondo decile della distribuzione spende circa l’85%.








    Ma la regressività non è l’unico problema dell’imposta generalizzata sui consumi “nascosta” nei dazi. Un altro grande difetto è la mancanza di trasparenza, perché i consumatori non si rendono conto di essere tassati. Soprattutto se la comunicazione ufficiale diffonde una narrazione (infondata) volta a far credere che le tasse siano pagate dai contribuenti cinesi, europei e del resto del mondo.
    Il gettito generato dai dazi






    L’inflazione provocata dai dazi si configura quindi come un’imposta nascosta e regressiva. Ma quale sarà il gettito — cioè l’insieme delle entrate fiscali — generato da questa imposta?
    Warwick McKibbin e Geoffrey Shuetrim hanno stimato che, se i dazi verso il resto del mondo si stabilizzassero intorno al 15% (rispetto a un attuale picco del 145% contro la Cina), le entrate fiscali per il Tesoro statunitense ammonterebbero a circa 3.900 miliardi di dollari nell’arco di dieci anni.
    Tuttavia, gli autori avvertono che una parte di questo gettito verrebbe erosa dalla riduzione di altre entrate fiscali, causata dalla contrazione dell’economia provocata dagli stessi dazi. Poiché imprese e consumatori subirebbero un calo di reddito e profitti, il gettito derivante dalle imposte sul reddito dovrebbe diminuire di circa 700 miliardi di dollari (secondo una stima ottimistica), riducendo il totale a circa 3.200 miliardi.
    Un ulteriore fattore di contrazione della domanda di beni americani potrebbe scaturire un apprezzamento del dollaro. Se un paese impone dei dazi, esercita una minore domanda di beni valutati in valuta straniere, che determina un apprezzamento della valuta nazionale. In teoria, questo apprezzamento potrebbe persino neutralizzare completamente, almeno nel breve periodo, l’effetto dei dazi, rendendo le esportazioni estere di nuovo competitive. Se il dollaro vale di più, infatti, gli americani possono continuare ad acquistare beni stranieri anche se sono diventati più costosi a causa dei dazi.
    In pratica, tuttavia, tale apprezzamento non si sta verificando a causa di un’altra dinamica, molto preoccupante per gli Stati Uniti: l’erosione del ruolo di rifugio sicuro del dollaro. Come ho già discusso in questo post, i mercati finanziari stanno rivalutando la liquidità e la sicurezza degli asset denominati in dollari, che per ora sta determinando un deprezzamento graduale e consistente del dollaro.
    Il gettito è destinato a ridursi ulteriormente se gli ex partner commerciali degli Stati Uniti decideranno di attuare rappresaglie — già annunciate da molti paesi. In tal caso, la contrazione della domanda estera di beni americani causerà un’ulteriore compressione dei redditi e, di conseguenza, una riduzione del gettito fiscale derivante dalle imposte sul reddito. Anche la domanda americana di beni esteri diminuirà, riducendo così il gettito direttamente derivante dai dazi.
    Secondo le stime di Warwick McKibbin e Geoffrey Shuetrim per il PIIE, nel caso probabile di rappresaglie commerciali, le entrate derivanti dai dazi potrebbero scendere fino a 2.900 miliardi di dollari. Da questa cifra andrebbe poi detratto il calo di gettito causato dall’ulteriore peggioramento dei redditi di imprese e famiglie, riducendo il totale a circa 1.500 miliardi.








    In ogni caso, anche se la contrazione dei redditi di lavoratori e imprese ridurrà le entrate complessive dello Stato, l’imposta regressiva nascosta nei dazi sarà comunque pagata per intero dai contribuenti americani. Questo significa che i 2.900-3.200 miliardi di dollari di gettito previsti nei diversi scenari saranno prelevati dalle tasche dei consumatori, indipendentemente dal fatto che, essendosi impoveriti, verseranno imposte sul reddito inferiori.
    Le stime di Kimberly A. Clausing e Mary E. Lovely per il PIIE indicano che, in uno scenario “moderato” come quello finora considerato, il costo complessivo per i contribuenti statunitensi ammonterà ad almeno l’1,8% del PIL ogni anno.
    Secondo l’Institute on Taxation and Economic Policy (ITEP), ciò si tradurrà in un esborso annuale di circa 3.370 dollari, per dieci anni, per i contribuenti appartenenti al quintile mediano della distribuzione del reddito (quelli con redditi compresi tra 55.000 e 94.000 dollari).
    Come mostra la figura qui sotto, l’ITEP stima che, nel 2026, i dazi attualmente in vigore (pari al 145% verso la Cina e al 10% generalizzato verso il resto del mondo) comporteranno per le famiglie nel 20% più povero un costo equivalente a un aumento delle tasse pari al 6,2% del reddito. Per le famiglie nel quintile mediano, l’aggravio sarà pari al 5%, mentre per l’1% più ricco l’aumento sarà limitato all’1,7% del reddito.








    L’effetto redistributivo delle politiche economiche di Trump






    Nello scenario più plausibile, il gettito complessivo derivante esclusivamente dai dazi (cioè senza considerare la diminuzione delle entrate derivanti dalle imposte sul reddito) sarà di circa 3.200 miliardi di dollari. A cosa dovrebbero servire, in teoria, questi soldi? Seguendo le proposte elettorali di Trump, la maggioranza repubblicana nel Congresso ha stabilito l’estensione del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA). In teoria, il gettito dei dazi dovrebbe contribuire a finanziare questo schema – che per il resto sarà finanziato a debito.
    Il TCJA riduce le aliquote fiscali per le persone e le imprese, stabilisce esenzioni per certi tipi di reddito (per esempio, quello derivante da lavoro straordinario e trasferimenti della sicurezza sociale), elimina i crediti d’imposta destinati a incentivare la produzione e l’uso di energia verde, cancella le esenzioni personali e limita le detrazioni per le imposte sul reddito statali e locali, le imposte sugli immobili e gli interessi sui mutui. Inoltre, elimina l’Alternative Minimum Tax (AMT) per le imprese e la riduce per le persone fisiche.
    Nel complesso, il combinato disposto delle riduzioni fiscali per individui e imprese previsto dal TCJA favorisce in modo netto le imprese e le fasce di reddito più elevate.
    Secondo le stime di Clausing e Lovely, le classi meno abbienti trarranno benefici marginali dal TCJA e subiranno invece forti penalizzazioni a causa dei dazi. Al contrario, le classi più agiate saranno significativamente avvantaggiate dal TCJA e solo marginalmente penalizzate dai dazi, per le ragioni che abbiamo discusso sopra.
    Per chi si trova nel 20% più povero della popolazione, il reddito disponibile aumenterà dello 0,5% grazie al TCJA, ma si ridurrà del 6,3% a causa dei dazi, con un effetto netto pari a -5,8%.
    Come illustra la figura qui sotto, tratta dal policy brief delle autrici, per chi appartiene al quintile mediano, il peggioramento netto sarà pari al 4,1% del reddito disponibile. Per l’1% più ricco, invece, il reddito disponibile aumenterà del 2,3% grazie al TCJA e si ridurrà solo dell’1,4% a causa dei dazi, con un effetto netto positivo pari allo 0,9%.








    Le stime del PIIE sono ottimistiche, perché non considerano il peggioramento dei redditi familiari che deriverà dalla contrazione della domanda, i cui primi segnali sono già visibili.
    In parole povere, una politica commerciale che graverà soprattutto sulle classi meno abbienti servirà a finanziare un piano di riduzione delle tasse che favorirà principalmente i più ricchi.
    Le stime dell’ITEP sono ancora più severe e indicano che l’estensione del TCJA comporterà una diminuzione del reddito disponibile per tutte le classi di reddito, tranne che per il 5% più ricco della popolazione.
    Secondo l’ITEP, il 20% più povero subirà un aumento delle tasse pari al 4,8% del reddito. Il secondo quintile (reddito tra 28.600 e 55.100 dollari) registrerà una diminuzione più contenuta, pari al 3,5%. Al contrario, l’1% più ricco beneficerà di una riduzione delle imposte pari all’1,2% del reddito. La figura sotto, tratta da questo report, illustra la distribuzione della variazione della pressione fiscale tra le classi di reddito.








    Il quadro redistributivo si aggrava ulteriormente se consideriamo l’altro pilastro della strategia fiscale di Trump: la riduzione delle imposte sul reddito delle società. Anche in questo caso, gli effetti distributivi sono regressivi. Quando si riducono le imposte alle imprese, i principali beneficiari sono gli azionisti, poiché, a parità di condizioni, il risparmio fiscale si traduce in maggiori dividendi o in un aumento del valore delle azioni. Poiché le famiglie ad alto reddito — e in particolare le famiglie bianche — possiedono una quota sproporzionata delle azioni societarie, sono loro a trarre il massimo vantaggio da questi tagli. Questa figura, elaborata dall’ITEP, illustra la distribuzione dei vantaggi della riduzione delle imposte sul reddito delle società.








    Va però ricordato che tutte le stime prodotte finora sono ottimistiche, perché non tengono conto dei dazi stratosferici imposti sui prodotti provenienti dalla Cina, della possibilità di rappresaglie generalizzate, e della diminuzione del reddito causata dalla crisi probabilmente in arrivo.




    Togliere ai poveri per dare ai ricchi






    In parole povere, Trump spera di usare una misura regressiva per finanziare un’altra misura regressiva. Ma non è tutto: le politiche economiche della sua amministrazione avranno effetti inflazionistici, quindi regressivi, anche al di là dell’aumento dei prezzi direttamente causato dai dazi.
    Infatti, anche altri aspetti di Maganomics sono ad alto potenziale inflazionistico. L’espulsione in massa degli immigrati provocherà aumento dei prezzi a causa della riduzione dell’offerta di lavoro. Il deprezzamento del dollaro cui abbiamo assistito finora rischia di aumentare i costi di produzione costringendo imprese e consumatori a “importare inflazione”. E le pressioni (o minacce) all’autorità monetaria affinché riduca i tassi di interesse e compri i titoli di Stato rischiano di aggravare la situazione.
    Come i dazi, anche l’inflazione si comporta come una tassa regressiva e nascosta. Poiché riduce il valore reale degli stock, può aiutare a frenare l’espansione del debito pubblico. Il costo di questo risultato, tuttavia, viene sostenuto dalle classi meno abbienti.
    Come non bastasse, Trump e i repubblicani al Congresso colpiscono le famiglie più vulnerabili su due fronti: da un lato, aumentano il costo dei consumi con i dazi;
    dall’altro, riducono l’accesso all’assistenza sanitaria e al sostegno alimentare con tagli di bilancio.
    Il bilancio finale di Maganomics è una redistribuzione al contrario, dai meno abbienti verso chi possiede già di più. Le politiche economiche di Trump comportano un significativo peggioramento del tenore di vita per tutte le classi di reddito, a eccezione delle più ricche.
    Un risultato in netto contrasto con la narrazione del presidente, che tra una partita di golf e l’altra, ama proporsi come campione del ceto medio e della classe operaia. The art of the deal.


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  2. #992
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    «Gramsci è stato utilizzato tante volte per capire una cosa molto difficile: perché le persone povere votano le persone ricche invece di fare una rivoluzione? Perché le persone ricche, proprio in virtù della loro ricchezza, hanno spesso il controllo dei media, hanno spesso un potere che è dettato dai loro mezzi economici, hanno un potere di convincimento», dice Ruggieri, citando come altro esempio storico il thatcherismo. Pur essendo espressione di valori ispirati a un liberismo sfrenato, il Partito Conservatore guidato dalla prima ministra britannica Margaret Thatcher ottenne anche il sostegno di parte della classe operaia perché lavorò molto per influenzare il senso comune, propagandando ideali di nazionalismo, individualismo e competizione sociale.
    Anche l’amministrazione di un presidente ricchissimo come Trump, in definitiva, riesce ad avere successo perché costruisce attraverso i media, inclusi i social media, «un’alleanza culturale tra ricchi e poveri in nome di un certo numero di ideali», dice Ruggieri. E indipendentemente da quanto siano consapevoli di tutto questo oppure no gli attivisti e gli intellettuali che hanno ispirato le politiche aggressive di Trump, citando spesso Gramsci, «Gramsci è certamente un riferimento culturale utile a leggere l’evoluzione di questa situazione».

    Come mai Gramsci piace ai trumpiani - Il Post

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  3. #993
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Citazione Originariamente Scritto da Gianni78ba Visualizza Messaggio
    L’arte di togliere ai poveri per dare ai ricchi
    Si può riassumere il bellissimo post con una sola parola: KARMA!
    Neutrofilo, normofilo, fatalistofilo: il politically correct della meteo
    27/11: fuori a calci i pregiudicati. Liberazione finalmente.

  4. #994
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Interessantissimo studio riportato dal professor Sabatini:

    Gli elettori e l’inflazione

    Secondo i sondaggi, una delle ragioni per cui gli americani hanno scelto Trump e punito Joe Biden (e la vicepresidente Kamala Harris) alle urne è stata proprio l’inflazione. Ma gli elettori sapranno riconoscere che la responsabilità dell’inflazione — che fino a gennaio era sotto controllo — oggi ricade interamente sul nuovo presidente?
    L’economia comportamentale può aiutarci a rispondere. Un team di ricercatori guidato da Stefanie Stantcheva (Harvard University) ha studiato come il pubblico interpreta le informazioni sull’inflazione e quali sono gli effetti sulle preferenze politiche. I risultati mostrano che gli americani percepiscono l’inflazione come un fenomeno inequivocabilmente negativo, raramente associato a compromessi accettabili in termini di crescita od occupazione. Le cause dell’inflazione che gli intervistati individuano con maggiore frequenza sono le decisioni del governo, in particolare la spesa per aiuti umanitari e militari a paesi esteri, e l’aumento dei costi di produzione, per esempio quelli dovuti alla volatilità delle materie prime e all’interruzione delle filiere. Non sorprende che la comunicazione politica di Trump insista spesso su questi punti: i drastici tagli agli aiuti esteri — come la chiusura di Usaid e la sospensione degli aiuti militari all’Ucraina — e l’affermazione che le filiere siano in buona salute e la domanda di lavoro in crescita (affermazioni, queste ultime, in netto contrasto con la realtà).
    Gli intervistati comprendono bene che l’inflazione complica le decisioni quotidiane delle famiglie e colpisce in modo sproporzionato le fasce di reddito più basse (come ho spiegato qui). Tuttavia, nonostante questa forte avversione per l’inflazione, mostrano una scarsa propensione a sostenere politiche monetarie restrittive per contrastarla. In molti casi ritengono, erroneamente, che l’aumento dei tassi d’interesse faccia crescere, anziché ridurre, l’inflazione. Vi è invece consenso sulla desiderabilità di aumenti delle imposte per le imprese e i redditi più elevati – misure in netto contrasto con le politiche fiscali programmate dall’amministrazione, come ho spiegato qui.
    Un dato particolarmente interessante è che gli elettori attribuiscono maggiore importanza al controllo dell’inflazione rispetto alla disoccupazione, anche quando l’inflazione è solo moderata. Tuttavia, al tempo stesso, non accettano alcun compromesso: pretendono che l’inflazione venga ridotta senza dover sostenere costi in termini di crescita o aumento della disoccupazione, e pensano che le dinamiche inflazionistiche possano essere fermate per decreto.
    Questo orientamento suggerisce che gli attacchi di Trump alla linea e all’indipendenza della banca centrale non causeranno, di per sé, una perdita di consenso. Il pubblico ha una comprensione limitata delle ragioni e del funzionamento delle politiche monetarie. Poiché gli elettori non percepiscono i trade-off necessari per combattere l’inflazione, la resilienza politica di Trump dipenderà soprattutto dalla sua abilità nell’addossare ad altri la responsabilità dei propri fallimenti: la Fed, Sleepy Biden, i rettiliani e qualsiasi nuovo nemico immaginario che la propaganda saprà saprà tirare fuori dal cilindro.
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  5. #995
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Altro interessantissimo articolo/studio riportato e commentato dal professor Sabatini:

    Come ci si accorge di aver superato la linea che ci separa dall’autoritarismo?

    La domanda non riguarda solo gli Stati Uniti, ma ogni democrazia contemporanea in cui leadership autocratiche e movimenti populisti erodono le istituzioni dall’interno e dall’esterno, in contesti segnati da una crescente polarizzazione politica, economica e sociale.
    In un articolo pubblicato sul New York Times venerdì scorso, Steven Levitsky (Harvard), Lucan Way (University of Toronto) e Daniel Ziblatt (Harvard) spiegano in che modo possiamo renderci conto di aver perso, o di stare perdendo, la democrazia. Gli autori sono tra i massimi esperti internazionali di autoritarismo, e hanno scritto opere preziose per comprendere il nostro tempo, come How Democracies Die (pubblicato in italiano da Laterza) e Competitive Authoritarianism (che purtroppo non è stato ancora tradotto).
    Il loro intervento merita di circolare anche nel dibattito italiano — uno dei più vulnerabili dell’Europa occidentale alle suggestioni autoritarie e all’erosione della fiducia nelle istituzioni. Anche a causa della massiccia infusione di propaganda populista, spesso amplificata da attori esterni al nostro Paese.
    In questo post propongo una selezione di estratti, accompagnati da alcuni miei commenti per contestualizzare le tesi degli autori, anche alla luce di episodi recenti negli Stati Uniti e in Europa.
    L’autoritarismo è più difficile da riconoscere di un tempo. La maggior parte degli autocrati del ventunesimo secolo arriva al potere attraverso elezioni. Invece di reprimere l’opposizione con la violenza, gli autocrati contemporanei trasformano le istituzioni dello Stato in armi politiche, usando il sistema giudiziario e le forze dell’ordine, il fisco e gli enti regolatori per punire gli oppositori e spingere ai margini i media e la società civile. Levitsky, Way e Ziblatt definiscono questo modello di governance come “autoritarismo competitivo”: un sistema in cui i partiti di opposizione possono presentarsi alle elezioni, ma l’abuso sistematico del potere da parte del governo in carica altera profondamente le regole del gioco. Le istituzioni non sono più imparziali, e la competizione elettorale non è più equa. È questo il modello di governo che osserviamo in paesi come Ungheria, India, Serbia e Turchia.
    La discesa verso l’autoritarismo competitivo non fa scattare automaticamente campanelli d’allarme. I cittadini spesso non si accorgono di essere governati da un regime autoritario, perché gli attacchi contro i nemici politici avvengono attraverso strumenti apparentemente legali, come cause per diffamazione, ispezioni fiscali e inchieste giudiziarie.
    Come si riconosce, allora, il momento in cui la democrazia cede il passo all’autoritarismo? Gli autori propongono un criterio semplice ed efficace: misurare il costo dell’opposizione. In una democrazia, i cittadini non vengono puniti per l’opposizione pacifica a chi detiene il potere. Possono pubblicare opinioni critiche sui media (compresi i social media), sostenere candidati di opposizione e protestare in modo non violento senza temere ritorsioni.
    In un regime autoritario, invece, l’opposizione ha un prezzo. Cittadini e organizzazioni che si espongono diventano bersagli di misure punitive. I politici possono essere indagati e processati sulla base di accuse infondate o pretestuose. I media possono subire cause per diffamazione o decisioni regolatorie ostili. Le imprese possono essere sottoposte a controlli fiscali o escluse da contratti e appalti critici per la loro sopravvivenza. Le università e altre istituzioni della società civile possono essere private di finanziamenti statali o perdere le esenzioni fiscali. I giornalisti, gli attivisti e chiunque critichi il governo a qualunque titolo possono essere minacciati, molestati o perfino aggrediti fisicamente dai sostenitori del governo.
    Se i cittadini devono pensarci due volte prima di criticare il governo, perché sanno che dovranno affrontare una rappresaglia, allora hanno smesso già di vivere in una democrazia vera e propria.
    Gli Stati Uniti hanno già oltrepassato la linea

    Chi segue le cronache americane sa che tutte queste condizioni si sono già verificate. L’amministrazione Trump ha intrapreso — o minacciato credibilmente — azioni punitive contro un numero sorprendentemente ampio di individui e organizzazioni considerati oppositori.
    Per esempio, Trump ha ordinato al Dipartimento di Giustizia di aprire indagini su Christopher Krebs (che, da capo dell’agenzia per la sicurezza informatica, aveva smentito pubblicamente le false accuse di brogli nel 2020) e su Miles Taylor (funzionario del Dipartimento per la sicurezza interna e autore anonimo di un editoriale critico nel 2018).
    Ha inoltre avviato un’indagine penale contro Letitia James, procuratrice generale dello Stato di New York, che aveva intentato una causa contro Trump nel 2022.
    L’amministrazione ha anche colpito importanti studi legali, vietando di fatto al governo federale di avvalersi di realtà come Perkins Coie e Paul, Weiss, ritenute vicine ai Democratici. Ha minacciato i loro clienti con la revoca dei contratti pubblici e sospeso le autorizzazioni di sicurezza dei dipendenti, impedendo loro di lavorare su casi federali.
    L’aspetto più inquietante di questo passaggio non è solo l’uso del potere esecutivo per colpire avversari politici, ma la sua normalizzazione. In un sistema democratico sano, l’idea che un presidente possa ordinare indagini penali contro i propri critici dovrebbe suscitare una reazione immediata e unanime. Se ciò non accade, o accade tardi, o solo da parte dell’opposizione, significa che la soppressione della libertà di critica è già stata interiorizzata da una parte della società. In quel momento, la cultura democratica si incrina in modo decisivo.
    Non accade solo negli Stati Uniti. In Ungheria, Turchia ed El Salvador, leader come Orbán, Erdoğan e Bukele seguono uno schema molto simile: il potere esecutivo si appropria delle istituzioni (polizia, magistratura, agenzie fiscali) per intimidire o neutralizzare il dissenso.
    Le immagini dell’incontro molto amichevole nello Studio Ovale tra Trump e Bukele – in cui il presidente ha affermato di voler deportare anche cittadini americani nelle carceri salvadoregne – sono emblematiche e rivelatrici dell’affinità non solo umana, ma anche politica valoriale tra i due leader. Soprattutto se confrontante con le immagini di un altro celebre (e ignobile) incontro nella stessa stanza: quello tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy.
    Anche in paesi come l’Italia, dove i meccanismi di controllo democratico sono ancora attivi, è legittimo chiedersi: quanto ci metteremmo ad abituarci all’idea che chi critica il governo venga punito — non con la censura diretta, ma con controlli fiscali selettivi, tagli a contratti pubblici, campagne di delegittimazione, azioni legali intimidatorie?
    L’Italia non è l’Ungheria, né la Turchia. Eppure, la nostra disponibilità ad accettare l’erosione delle regole democratiche sembra sorprendentemente precoce e ampia.
    Lo abbiamo visto quando un premier ha definito i magistrati “cancro della democrazia” e ha cercato ripetutamente di sottrarsi al giudizio penale, con il plauso di metà del Parlamento e dell’elettorato. O quando il governo gialloverde ha proposto il vincolo di mandato per i parlamentari, e gran parte dell’opinione pubblica ha reagito con indifferenza.

    La nostra cultura democratica è più fragile di quanto crediamo, e l’idea che “da noi certe cose non possano succedere” è, oggi, una delle illusioni più pericolose.
    L’intimidazione e l’autocensura

    Come altri regimi autoritari, anche l’amministrazione Trump ha preso di mira i media. Per esempio, ha intentato cause legali contro ABC News, CBS News, Meta, Simon & Schuster e il Des Moines Register. Le basi giuridiche di queste azioni sono deboli, ma l’obiettivo non è vincere in tribunale. Il vero scopo è intimidire e scoraggiare.
    Una causa, anche infondata, può significare anni di spese legali, pressioni sugli investitori, ritorsioni su altri rami dell’impresa. L’effetto è il silenzio selettivo e l’autocensura prudenziale. Se un giornalista espone la testata a dei rischi, viene allontanato. Chi ha una reputazione di indipendenza non viene assunto.
    Nel 2023, l’Unione Europea ha riconosciuto la pericolosità di queste azioni e ha approvato una direttiva anti-SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) per proteggere giornalisti, attivisti e ONG da cause legali abusive promosse da politici o grandi aziende. È una misura fondamentale per difendere la libertà di stampa e di critica, che ancora una volta ci ricorda che l’Europa va difesa non solo come spazio economico, ma come argine democratico contro l’autoritarismo dilagante.
    Le misure punitive contro le università hanno la stessa funzione intimidatoria delle azioni legali contro i media.
    Il Dipartimento dell’Istruzione ha aperto indagini su almeno 52 atenei per la loro partecipazione a programmi su diversità, equità e inclusione, e ha messo circa 60 università sotto inchiesta per presunti episodi di antisemitismo, minacciandole con sanzioni pesanti.
    L’amministrazione ha inoltre sospeso illegalmente centinaia di milioni di dollari in finanziamenti già approvati per istituzioni come Brown, Columbia e Princeton. Ha congelato 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni pubbliche destinate a Harvard, chiesto all’agenzia delle entrate (IRS) di revocare il suo status di ente esente da imposte, e minacciato di escluderla dal programma federale per l’ammissione di studenti stranieri.

    Il messaggio è chiaro: se un’università promuove o tollera idee sgradite al governo, perderà i suoi principali mezzi di sopravvivenza.
    Gli effetti sono prevedibili. Se un corso, una ricerca o una conferenza mettono a rischio i finanziamenti, gli atenei eviteranno di assumere docenti critici, o licenzieranno chi si espone, e adotteranno gli stessi criteri anche nella selezione degli studenti.
    È questa l’essenza della lettera inviata a Harvard dall’amministrazione Trump, che chiedeva esplicitamente di controllare la gestione del personale, i temi di ricerca e la didattica. Che la Casa Bianca intenda usare l’agenzia delle entrate — un’istituzione che in una democrazia dovrebbe essere imparziale — per colpire un’università sgradita, è in sé un segnale inequivocabile.

    La repressione della libertà di espressione va ben oltre i media tradizionali. Con il piano Catch and Revoke, l’amministrazione Trump intende schedare i profili social degli immigrati con l’uso dell’intelligenza artificiale, per valutare le loro opinioni politiche e decidere se revocare loro il permesso di soggiorno o la residenza permanente. Nel caso, l’espulsione potrebbe scattare anche solo per un contenuto pubblicato online.
    Come accade per le deportazioni — che Trump e la ministra della giustizia Pam Bondi non escludono di estendere ai cittadini americani sgraditi — anche questa misura potrebbe facilmente allargarsi a chiunque. Lo scopo è sempre lo stesso: alimentare la paura di esprimersi, anche sui social, e svuotare la vita pubblica di ogni partecipazione civica. In un simile contesto, uno studente o un docente universitario che volessero esprimere opinioni critiche sui social media rischierebbero sanzioni disciplinari, licenziamento o espulsione.
    Secondo la metrica proposta da Levitsky, Way e Ziblatt, siamo già ben oltre la linea di separazione dall’autoritarismo competitivo: la democrazia non è formalmente abolita, ma l’opposizione ha un prezzo altissimo.
    Siamo lontani dai livelli di repressione delle dittature come la Russia — dove i critici del regime vengono incarcerati, esiliati o uccisi — ma gli Stati Uniti stanno vivendo, con una rapidità impressionante, una trasformazione profonda: chi si oppone al governo ha paura. Paura di indagini penali, cause civili, controlli fiscali: ritorsioni che possono rovinare la vita propria e dei propri cari.
    Perfino i politici repubblicani, come ha dichiarato un ex funzionario dell’amministrazione Trump, sono “terrorizzati”: “fuori di sé dalla paura per le minacce di morte” che ricevono ogni volta che si suppone vogliano opporsi al presidente.
    Gli americani stanno già vivendo sotto un nuovo regime. La vera domanda, ora, è se permetteranno che questo regime metta radici. Finora, la risposta della società americana all’offensiva autoritaria è stata deludente in modo allarmante.
    I leader politici e della società civile si trovano davanti a un classico problema di azione collettiva. La grande maggioranza di politici, dirigenti d’impresa, soci di studi legali, direttori di giornali e rettori universitari preferisce vivere in una democrazia e vorrebbe porre fine a questi abusi. Ma, presi singolarmente e messi di fronte alle minacce del governo, hanno ogni interesse ad adeguarsi, piuttosto che opporsi, per proteggere le loro organizzazioni.
    Questa è la logica fatale dell’appeasement: l’illusione che, cedendo in silenzio, in modo graduale e temporaneo, si possano evitare danni peggiori nel lungo periodo.
    Quasi mai è così.
    Gli atti individuali di autoconservazione hanno costi collettivi enormi. L’acquiescenza incoraggia il governo a spingersi oltre e colpire gli oppositori in modo più duro e sistematico. Le autocrazie raramente si consolidano solo con la forza: si rafforzano grazie alla complicità passiva, alla rinuncia alla responsabilità e all’inerzia di chi avrebbe potuto resistere. Come avvertiva Churchill, l’appeasement è come dare da mangiare a un coccodrillo sperando di essere l’ultimo a essere divorato.
    Se il ritiro di un singolo studio legale o finanziatore può sembrare irrilevante, il ritiro collettivo lascia l’opposizione senza risorse, senza protezioni e senza voce. Ogni articolo non pubblicato, ogni discorso non pronunciato, ogni conferenza cancellata erode lentamente la democrazia. Quando l’opposizione finge di essere morta, è quasi sempre il governo a vincere. E soprattutto: l’acquiescenza dei leader più visibili manda un messaggio devastante alla società. Dice che la democrazia non vale la pena di essere difesa. O, peggio, che resistere è inutile.
    Il messaggio di Levitsky, Way e Ziblatt non riguarda solo l’America.
    Le democrazie del vecchio continente sembrano oggi più solide di quella americana, ma sono esposte agli stessi rischi. L’Europa, con tutti i suoi limiti, resta uno degli ultimi argini istituzionali e culturali contro l’autoritarismo dilagante.
    Ma le istituzioni non si autoalimentano: per funzionare, hanno bisogno di essere sostenute da persone e comunità disposte a sopportare dei costi per difenderle. Di un’opinione pubblica consapevole, una società civile vigile, e cittadini capaci di riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi.
    In Italia, dove le simpatie autoritarie non sono mai del tutto scomparse, questi segnali rischiano spesso di essere ignorati, minimizzati o perfino normalizzati.

    Nota per i lettori: questo post non è una traduzione letterale dell’articolo di Levitsky, Way e Ziblatt. Come precisato in apertura, si tratta della presentazione di alcuni estratti, accompagnati da commenti personali e riferimenti a episodi recenti riguardanti gli Stati Uniti e l’Europa.
    Come sono purtroppo costretto a ricordare, non autorizzo la riproduzione, nemmeno parziale, né la rielaborazione dei miei testi. Questo vale anche nei casi in cui, al termine del copia-incolla, compaia il mio nome — come se fossi collaboratore della testata che compie l’operazione.
    Non collaboro con nessuna testata giornalistica, fatta eccezione per quelle con cui scrivo saltuariamente da anni commenti di economia.
    La vignetta che accompagna il lancio di questo post è del vignettista portoghese Zez Vaz.
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  6. #996
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Sui dazi sta un po' tutto rientrando intanto
    reuters.com

    Those who are not shocked when they first come across quantum theory cannot possibly have understood it. (N.Bohr, 1952)

  7. #997
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Tu pensa oh... Pare che gli USA metteranno dazi sui prodotti cinesi del 30% e i cinesi del 10% sui prodotti americani.
    Che non è poco, chiaramente. Ma guarda caso l'embargo de facto è rientrato. Chissà come mai...
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    27/11: fuori a calci i pregiudicati. Liberazione finalmente.

  8. #998
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    IL MONDO DI ROCCAFORTI RIVALI DI TRUMP

    (titolo originale FT: Trump’s world of rival fortresses).

    La cosa sorprendente delle politiche di Donald Trump è che le persone continuano a stupirsi. I giornali si scandalizzano ogni volta che il presidente degli Stati Uniti aggredisce un pilastro dell’ordine liberale globale, per esempio sostenendo le rivendicazioni della Russia sui territori ucraini, prendendo in considerazione l’annessione della Groenlandia, o scatenando il caos finanziario con gli annunci sui dazi. Eppure le sue politiche sono così coerenti, e la sua visione è così chiara che a questo punto solo l’idea che mentiamo a noi stessi può spiegare la sorpresa collettiva.

    I sostenitori dell’ordine liberale vedono il mondo come una rete di cooperazione in cui potenzialmente tutti alla fine ci guadagnano. Sono convinti che il conflitto non sia inevitabile. Questa idea ha profonde radici filosofiche. I liberali sostengono che tutti gli esseri umani condividono esperienze e interessi, che possono costituire la base dei valori universali, delle istituzioni globali e del diritto internazionale. Per esempio, tutti gli esseri umani detestano la malattia e hanno un interesse comune a prevenire la diffusione di patologie contagiose. Perciò ogni paese avrebbe dei benefici dalla condivisione delle conoscenze mediche, dalle iniziative globali per sradicare le epidemie e dalla creazione di istituzioni come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che coordinano questi sforzi. Allo stesso modo, i liberali interpretano il flusso di idee, merci e persone in termini di benefici reciproci e non come una competizione inevitabile.

    Nella visione trumpiana, al contrario, il mondo è un gioco a somma zero in cui ogni transazione provoca vincitori e vinti. Il movimento d’idee, merci e persone è quindi intrinsecamente sospetto. Gli accordi, le organizzazioni e le leggi internazionali non sono altro che un complotto per indebolire alcuni paesi e rafforzarne altri o una cospirazione per indebolire tutti a vantaggio di una sinistra élite cosmopolita. Qual è allora l’alternativa preferita da Trump? Come dovrebbe essere il mondo secondo lui?

    Il mondo ideale di Trump è un mosaico di fortezze, in cui i paesi sono separati da muri finanziari, militari, culturali e materiali. Un pianeta che rinuncerebbe alla potenzialità della cooperazione, ma che secondo Trump e i populisti come lui offrirebbe ai paesi più stabilità e pace.

    Naturalmente in questa visione del mondo manca una componente fondamentale. Millenni di storia c’insegnano che ogni fortezza probabilmente vorrà un po’ più di sicurezza, di prosperità e di territorio per sé, a spese dei vicini. In assenza di valori universali, istituzioni globali e leggi internazionali, come risolveranno le loro dispute le fortezze rivali?

    La soluzione di Trump è semplice: il modo per prevenire i conflitti è che il debole faccia tutto quello che pretende il forte. Secondo questa idea, il conflitto avviene solo quando il debole rifiuta di accettare la realtà. La guerra quindi è sempre colpa dei fragili. Quando Trump ha incolpato l’Ucraina dell’invasione russa, molte persone non riuscivano a capire come potesse sostenere un’idea così assurda. Alcuni hanno pensato che si fosse fatto ingannare dalla propaganda di Mosca. Ma c’è una spiegazione più semplice. Secondo la visione trumpiana, le considerazioni basate sulla giustizia, sulla moralità e sul diritto internazionale sono irrilevanti, e l’unica cosa che conta nelle relazioni è il potere. Dato che l’Ucraina è più debole della Russia, avrebbe dovuto arrendersi. Per Trump pace significa resa. La stessa logica sta alla base del suo piano di annessione della Groenlandia. Se la Danimarca si rifiutasse di cedere la Groenlandia a Wash*ington, e gli Stati Uniti poi la conquistassero con la forza, l’unica responsabile di ogni spargimento di sangue sarebbe la Danimarca.

    Ci sono tre cose che non funzionano alla base dell’idea che le fortezze rivali possano evitare il conflitto. In primo luogo, non è vero che in un mondo del genere tutti si sentirebbero meno in pericolo e ogni paese potrebbe concentrarsi sullo sviluppo pacifico delle proprie tradizioni e della propria economia. In realtà le fortezze più deboli si ritroverebbero ben presto inghiottite dai vicini più forti, che da bastioni nazionali si trasformerebbero in imperi multinazionali in espansione. Lo stesso Trump è molto esplicito sui suoi progetti imperiali. Mentre costruisce muri per proteggere il territorio e le risorse statunitensi, volge un occhio predatorio al territorio e alle risorse di altri paesi, compresi gli ex alleati.

    Anche in questo caso la Danimarca è un caso rivelatore. Per decenni è stato uno degli alleati più affidabili degli Stati Uniti. Dopo gli attentati dell’11 settembre il paese scandinavo ha onorato i suoi obblighi con la Nato. Quarantaquattro soldati danesi sono morti in Afghanistan, un tasso di mortalità pro capite più alto di quello subìto dagli stessi Stati Uniti. Trump non si è preso la briga di dire “Grazie”. Al contrario, si aspetta che Copenaghen capitoli di fronte alle sue ambizioni imperiali. Vuole dei vassalli anziché degli alleati.

    Un secondo problema è che siccome nessuna fortezza può permettersi di essere debole, tutte sarebbero sottoposte a enormi pressioni per rafforzare la propria potenza militare. Si taglierebbero risorse allo sviluppo economico e ai programmi di welfare per darle alla Difesa. La corsa agli armamenti farebbe perdere benessere a tutti, senza dare a nessuno una maggiore percezione di sicurezza.

    In terzo luogo, la visione trumpiana conta sul fatto che i deboli si arrenderanno ai forti, ma non offre alcun metodo per determinare la forza di ciascuno. Cosa succede se alcuni paesi fanno male i loro conti, come spesso è successo nella storia? Nel 1965 gli Stati Uniti erano convinti di essere più forti del Vietnam del Nord, e pensavano che avrebbero potuto costringere il governo di Hanoi a raggiungere un accordo. I vietnamiti del Nord si rifiutarono di riconoscere la superiorità statunitense e vinsero la guerra. Come faceva Washington a sapere in anticipo che in realtà era destinata a perdere?

    Allo stesso modo, nel 1914 la Germania e la Russia erano entrambe convinte di vincere la guerra entro Natale. Ma fecero male i conti. Il conflitto durò molto più di quanto chiunque si aspettasse, e ci furono molti colpi di scena. Nel 1917 lo sconfitto impero zarista fu travolto dalla rivoluzione, ma la Germania si vide negare la vittoria a causa dell’inaspettato intervento statunitense. Quindi la Germania avrebbe dovuto scendere a patti nel 1914? O forse lo zar russo avrebbe dovuto riconoscere la realtà e arrendersi alle pretese tedesche? Nell’attuale guerra commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti chi dei due dovrebbe fare la cosa sensata e arrendersi in anticipo? Voi potreste rispondermi che invece d’interpretare il mondo come un gioco a somma zero, sarebbe meglio per tutti i paesi collaborare per garantire il benessere reciproco. Ma se la pensate così, state rifiutando i fondamenti delle idee trumpiane.

    La visione del mondo del presidente statunitense non è una novità. È stata dominante per millenni prima dell’ascesa dell’ordine liberale mondiale. In passato è stata sperimentata tante volte che oggi sappiamo a cosa porta, cioè a un ciclo senza fine di nuovi imperi e guerre. Peggio ancora, negli anni duemila le fortezze rivali dovrebbero vedersela non solo con la minaccia della guerra, ma anche con i cambiamenti climatici e l’ascesa di un’intelligenza artificiale super-intelligente. Senza una solida cooperazione internazionale non c’è modo di affrontare questi problemi globali. Siccome Trump non ha soluzioni né per i cambiamenti climatici né per una AI fuori controllo, nega l’esistenza di entrambe.

    I timori per la stabilità dell’ordine globale sono cresciuti dopo la prima elezione di Trump nel 2016. Oggi, dopo un decennio d’incertezza, abbiamo un quadro chiaro del disordine mondiale. Al posto della visione liberale del mondo come una rete di cooperazione, s’impone quella del mosaico di fortezze. Sta succedendo ovunque. Se si continua così, le conseguenze a breve termine saranno guerre commerciali, corsa agli armamenti ed espansione imperiale. Il risultato finale sarà la guerra mondiale, il collasso ambientale e un’intelligenza artificiale fuori controllo. Possiamo indignarci di fronte a questi sviluppi e fare del nostro meglio per impedirli, ma non è più giustificato stupirsi.

    Chi difende la visione del mondo di Trump dovrebbe rispondere a una domanda: come possono delle fortezze nazionali risolvere le loro dispute se non ci sono valori universali e norme internazionali vincolanti?
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  9. #999
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    The farce of the deal - Fabio Sabatini

    "In buona sostanza, l'Art of the deal di Trump funziona così:Commettere una sciocchezza catastrofica.Osservare le conseguenze catastrofiche.Rimangiarsi in parte la sciocchezza catastrofica per attenuarne gli effetti.Prendersi il merito per aver mitigato la catastrofe.Distrarre l’opinione pubblica con qualche trovata grottesca, offensiva o delirante.Ricominciare il giro."


    A questo proposito riprendo da un altro pezzo su substack (by L'Alieno gentile):

    Prendete ad esempio la storia del test che verrebbe condotto in Giappone sulle auto di importazione. In pratica, si lascia cadere una palla da bowling sul tetto di un’auto che qualcuno sta tentando di esportare in Giappone: se il tetto si ammacca, il test non è superato e l’auto non può essere venduta in Giappone.Bella storia, vero? Peccato sia una balla. Quel test non esiste. Trump però la racconta così bene dal 2018 che almeno lui ha finito per crederci (e a questo punto è facile decidano di crederci pure i giapponesi, con l’ìndubbio vantaggio di simulare l’accoglimento di una richiesta dell’aggressivo presidente Usa che reclama l’abolizione di un test inesistente).
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  10. #1000
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    Predefinito Re: "It's the economy, stupid!"

    Discorso di un Presidente del Consiglio sullo spread con faccia tutta un programma del suo Ministro dell'Economia seduto di fianco.

    Those who are not shocked when they first come across quantum theory cannot possibly have understood it. (N.Bohr, 1952)

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