Monday, March 12, 2007 11:01 p.m. EDT
Cold Chills Global Warming Expedition
An expedition designed to show how global warming is heating the Arctic had to be called off after one of the explorers got frostbite, thanks to incredibly frigid temperatures that got as low as 100 degrees below zero.
Explorers Ann Bancroft and Liv Arnesen planned to make a 530-mile journey on foot across the Arctic Ocean, but they had to call off the trek after Arnesen suffered frostbite in three of her toes, and extreme cold temperatures drained the batteries in some of their electronic equipment.
According to The Associated Press, they had planned to call in regular updates to school groups by satellite phone and had planned online posts with photographic evidence showing the alleged effects of global warming on the Arctic regions. On their Web site www.bancroftarneson.com they claim that "Arctic climate is now warming rapidly" and added that "much larger changes are projected."
The cold truth, however, got in the way - the climate in the allegedly warming Arctic area turned out to be bitterly cold according to spokeswoman Ann Atwood, who helped organize the expedition. She told the AP that the two measured the temperature inside their tent at 58 degrees below zero one night, while outside temperatures were exceeding an astounding 100 below zero at times.
"My first reaction when they called to say there were calling it off was that they just sounded really, really cold," Atwood said. She added that Bancroft and Arnesen were applying hot water bottles to Arnesen's foot every night, but had to wake up periodically because the bottles froze.
Atwood admitted there was some irony that a trip to call attention to global warming had to be called off in part by extreme cold temperatures.
"They were experiencing temperatures that weren't expected with global warming," Atwood said. "But one of the things we see with global warming is unpredictability."
n.d.r.: sono tutti °F
Neutrofilo, normofilo, fatalistofilo: il politically correct della meteo
27/11: fuori a calci i pregiudicati. Liberazione finalmente.
Pare che la stretta correlazione tra CO2 e temperature negli ultimi decenni sia ampiamente superata da ben altro:
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Con il titolo “Adesso il Pentagono dice a Bush: il cambiamento climatico ci distruggerà”, il quotidiano inglese Observer ha pubblicato il 22 febbraio una notizia sensazionale: “I cambiamenti climatici dei prossimi vent’anni potrebbero condurre ad una catastrofe globale che costerebbe la vita a milioni di persone, con le guerre e i disastri naturali .…………
“Un rapporto segreto, censurato dai vertici militari USA e venuto in possesso dell’Observer, prevede che le grandi città europee finiranno sotto il livello dei mari, che si stanno innalzando, mentre l’Inghilterra sprofonderà in un clima ‘siberiano’ entro il 2020.
“Conflitti nucleari, mega siccità, fame e ribellioni crescenti si verificheranno ovunque nel mondo ... Il documento prevede che un drastico cambiamento climatico potrebbe condurre il pianeta sull’orlo dell’anarchia, mentre i paesi si dotano di arsenali nucleari con la cui minaccia difendersi o procacciarsi cibo, acqua ed energia che diventano sempre meno disponibili.
La minaccia alla stabilità globale eclissa di gran lunga quella del terrorismo”.
Come l’Observer abbia fatto ad ottenere il rapporto “soppresso” non è un mistero tanto impenetrabile come si vuole dare ad intendere. Il rapporto è intitolato “Scenario per un cambiamento climatico improvviso e le implicazioni per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” e fu compilato sotto la direzione di Peter Schwartz, direttore del Global Business Network.
Si tratta della prima versione di lavoro di un articolo più ampio che è apparso, sotto il titolo “Cambiamento climatico per una minaccia alla sicurezza nazionale”, sulla rivista Fortune del 26 gennaio.
Ciò che è invece più interessante è che il documento era stato commissionato da un gruppo di pianificazione del Dipartimento di Difesa USA diretto da Andrew Marshall, e che questo fatto sia finito sulla stampa.
Da più d’un trentennio Marshall dirige l’Office for Net Assessments ed è considerato l’eminenza grigia del Pentagono.
La maggior parte dei pasticci strategico-militari in cui gli USA si sono cacciati negli ultimi decenni si possono tranquillamente attribuire a lui in massima parte.
Uno degli esempi più recenti è dato dalla famosa “Rivoluzione negli affari militari” (RMA), una riforma imperiale e utopistica che merita di essere considerata l’equivalente militare di quella truffa colossale che è stata la
“New Economy”.
Non dovrebbe dunque sorprendere che Marshall da decenni si prodighi ad osteggiare Lyndon LaRouche e le sue idee.
L’articolo apparso su Fortune evoca subito il clima della “guerra al terrorismo” sin dalla frase di apertura: “il riscaldamento globale sarà una brutta notizia, ma diciamocelo francamente, la maggior parte di noi dedica a questa preoccupazione così poco tempo come lo dedicava ad Al-Qaeda prima dell’11 settembre.
Come i terroristi però, il rischio climatico in apparenza remoto potrebbe colpire prima e più forte di quanto abbiamo mai immaginato”.
Un parallelo più stringente sarebbe difficile.
Interessante anche il significato politico che l’Observer attribuisce al rapporto: “Gli scenari del rapporto sono talmente drammatici ... da poter risultare decisivi nelle elezioni USA”.
Giacché il rapporto è stato commissionato “dall’influente consigliere del Pentagono Andrew Marshall ... che è il personaggio dietro una recente revisione generale mirante a trasformare i militari americani sotto il Segretario della Difesa Donald Rumsfeld”.
Dunque, il fatto che proviene da quella parte, per l’amministrazione Bush potrebbe rappresentare un imbarazzo, come spiega l’Observer: “I risultati si riveleranno umilianti per l’amministrazione Bush che ha ripetutamente negato l’esistenza di cambiamenti climatici. ... Il favorito democratico John Kerry invece, come è noto, considera il cambiamento climatico un problema reale. ... Il fatto che Marshall sia dietro questi risultati devastanti contribuisce alla causa di Kerry”.
Né l’amministrazione Bush può evitare il problema illudendosi che non riemerga come un tema importante nei prossimi mesi, visto che il 28 maggio dovrebbero cominciare le proiezioni del nuovo film «The day after tomorrow» (Il giorno dopo domani).
Mette in scena l’arrivo catastrofico e improvviso di una nuova glaciazione, cercando di ripetere l’effetto sconvolgente che 21 anni fa ebbe «The day after», gli Stati Uniti il giorno dopo un attacco nucleare.
Le basi ‘scientifiche’
La fretta di mettere insieme una campagna tanto spaventosa traspare soprattutto dalle presunte basi scientifiche della megacatastrofe prossima ventura.
Fortune fa riferimento al “rapporto segreto” di Schwartz in questi termini: nel contesto del World Economic Forum di Davos, in Svizzera, nel gennaio 2003 si tenne “un incontro in cui Robert Gogosian, direttore del Woods Hole Oceanographic Institution in Massachusetts sollecitò i politici a considerare le implicazioni di un cambiamento climatico entro due decenni”.
Il riferimento è pertinente perché le tesi presentate da Gagosian al World Economic Forum sono quelle acriticamente riproposte da Schwartz.
Nella teoria di Gagosian il riscaldamento globale condurrà ad un aumento continuo delle acque degli oceani dovute allo scioglimento dei ghiacci, e questo di conseguenza dovrebbe provocare un improvviso cambiamento
del percorso seguito dalla Corrente del Golfo, che non arriverà più nell’Atlantico Settentrionale.
A sua volta questo fenomeno dovrebbe innescare un improvviso cambiamento climatico globale che si manifesterebbe in maniera diversa in varie parti del globo, ma sempre con effetti negativi: nelle regioni fredde diventerà sempre più freddo, nelle regioni calde aumenteranno la siccità e la desertificazione, mentre nelle regioni delle tempeste e dei monsoni, l’intensità di questi fenomeni aumenterà catastroficamente.
Il tutto, naturalmente, si può impacchettare in un modello computerizzato che consente di prevedere quali saranno gli sviluppi.
Questo però non basta a fare dell’informatica un sostituto della scienza reale, soprattutto nelle previsioni sul lungo termine.
In effetti la teoria non ha proprio niente di nuovo.
I contorni generali risalgono al 1997, e già nel 2001 Gogosian tenne un’identica prolusione sulle “Conseguenze economiche e sociali dei cambiamenti ambientali globali”.
A quell’epoca pare che Peter Schwartz si occupasse d’altro e questa cosa tanto importante sembra essergli allora sfuggita.
Però, già poco dopo l’11 settembre 2001 Peter Schwartz scriveva sul sito internet del Global Business Network quanto segue:
“Se è vero, come molti sostengono, che la terza guerra mondiale è cominciata, è capitale capirne le ragioni ... Osama bin Laden è solo l’espressione di un problema molto più ampio ... In tutto il mondo islamico, dal Pakistan al Medio Oriente al Nord Africa, ci sono proprio pochi stati nazionali che si possono dire riusciti... La maggior parte di loro hanno fallito. ... Hanno bisogno di un nemico per giustificare il proprio fallimento. ... Sono
almeno dieci i paesi principali, in tre gruppi, con cui occorre fare i conti in qualsivoglia campagna generale contro il terrorismo”.
I paesi in questione sono Sudan, Afghanistan, Arabia Saudita, Iran e Siria.
Secondo Schwartz “I nostri obiettivi debbono essere sia le reti terroristiche che i governi che li sostengono.
Dobbiamo punire i malfattori estirpandoli”.
Ma, adesso che la dottrina della guerra preventiva della cordata neo-conservatrice ha evidentemente fallito negli scopi che si riproponeva, Schwartz ha improvvisamente scoperto che il clima mondiale pone una “minaccia alla stabilità globale” che “eclissa di gran lunga quella del terrorismo”!
Il movimento politico: guerra perpetua
Alla teoria di Gagosian su un improvviso cambiamento climatico (“Previsione meteorologica per 2010-2020”), Schwartz ha pensato bene di aggiungere il suo tocco di originalità.
La previsione di Gagosian ovviamente non può essere precisa, ciò nonostante “sembra che la comunità scientifica generalmente concordi con il fatto che un caso estremo come quello illustrato di seguito non sia al di fuori delle evenienze possibili”, scrive Schwartz.
Tenendo presente che persino le previsioni a breve tempo e in regioni limitate risultano per lo più inaccurate quando vi rientrano variazioni barometriche rapide e ampie, è difficile capire come si possa parlare di una “comunità scientifica concorde”, come fa Schwartz.
Al confronto con le altre però, questa non è la bugia più grossa.
Schwartz ad esempio prevede che un ribaltamento climatico catastrofico si potrebbe già presentare nel 2007 e su tale base tesse uno scenario da fine del mondo adatto come copione di un nuovo film-catastrofe.
È infatti facile vedere dallo stile generale del suo “rapporto segreto” come Schwartz abbia lavorato per titani di Holliwoods come Steven Spielberg, di cui è stato consigliere per il film “Minority report”.
Schwartz vede la scena: “Mentre i ghiacci polari si sciolgono, il livello del mare sale, ... le onde dell’oceano aumentano d’intensità, danneggiando le città costiere.
E poi ancora, milioni di persone vanno incontro ai rischi di inondazioni ovunque nel globo ... la pesca è rovinata dalla temperatura dell’acqua che cambia e porta i pesci a migrare altrove ... La siccità persiste per l’intero decennio in regioni agricole e in quelle attorno ai grandi centri popolosi in Europa e nel Nord America ... Tempeste e venti invernali diventano più forti”.
E via di questo passo.
Lo scenario di catastrofi climatiche, sbandierato per lungo e per largo, consente a Schwartz di arrivare alle conclusioni politiche che più gli premono: “Mentre il drastico cambiamento climatico riduce la capacità portante del mondo, è probabile che si verificheranno guerre aggressive per il cibo, l’acqua e l’energia”.
Ma guarda che coincidenza: proprio in contemporanea è uscito un libro scritto dal docente di Harvard Steven LeBlanc che “descrive i rapporti tra la capacità portante e le guerre”.
Secondo LeBlanc le guerre del futuro saranno un po’ diverse: “Gli stati più progrediti hanno decisamente ridotto il numero delle vittime ... Invece di uccidere tutti i nemici secondo i canoni tradizionali, ad esempio, gli stati uccidono solo quanto basta ad assicurarsi la vittoria e poi mettere i sopravvissuti al lavoro nella loro economica rimessa a nuovo ... Tutto questo comportamento progressivo potrebbe venir meno se le capacità
portanti finissero per crollare ovunque come conseguenza di un drastico cambiamento climatico. L’umanità tornerebbe alla solita situazione di contese continue per le risorse che si assottigliano ... La guerra detterebbe di nuovo le regole alla vita umana”.
Data l’esistenza di armi di distruzione di massa, questo scenario implicherebbe lo sterminio di gran parte dell’umanità.
Secondo Schwartz, “In questo mondo di stati guerreggianti, la proliferazione di armi nucleari è inevitabile ... Cina, India, Pakistan, Giappone, Corea del Sud, Inghilterra, Francia e Germania si saranno tutte dotate di armi nucleari, così come Israele, Iran, Egitto e Corea del Nord.”
Naturalmente qualcuno potrebbe pure finire col considerare che questa nuova corsa al riarmo sia il risultato della strategia della guerra nucleare preventiva instaurata da Cheney e Rumsfeld, e che prevede il ricorso alle cosiddette “mini-nukes”, testate nucleari a bassa potenza.
Ma è qui che ci aspetta Peter Schwartz per trattenerci dalla tentazione di arrivare ad una tale conclusione: no!
È tutta colpa del tempo!
E Andrew Marshall non può che concludere che è stata proprio una gran bella pensata.
Il ponte eurasiatico come alternativa al riflesso malthusiano……..
I CLIMATOLOGI sostengono che le attività industriali stiano provocando un rapido aumento della temperatura nell’atmosfera più prossima alla superficie terrestre, che non si era mai verificato prima nella storia.
Le emissioni industriali di biossido di carbonio, dicono, daranno presto vita ad una spirale di riscaldamento globale, con conseguenze disastrose per la biosfera.
Entro il 2100, continuano, la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera raddoppierà, provocando un aumento della temperatura media terrestre, da 1,9°C a 5,2°C e ai poli più di 12°C.
Solo pochi anni prima, questi stessi climatologi dicevano
che l’inquinamento industriale avrebbe portato ad una nuova
glaciazione.
Nel 1971, il leader spirituale degli attuali profeti del riscaldamento globale, il dott. Stephen H. Schneider del National Center for Atmospheric Research a Boulder in Colorado, trent'anni fa sosteneva che l’inquinamento avrebbe presto abbassato la temperatura globale di 3,5°C.
Queste conclusioni, contenute in un suo studio, seguivano a ruota alcune dichiarazioni ufficiali del National Science Board della U.S. National Science Foundation: “...quest’epoca caratterizzata da alte
temperature dovrebbe volgere al termine ... e condurre alla
prossima glaciazione”.
Nel 1974 lo stesso organismo notava: “negli ultimi venti o trent’anni, la temperatura mondiale si è abbassata, dapprima irregolarmente ma più decisamente nell’ultimo decennio”.
Comunque sia, per il nostro pianeta si prospetta una catastrofe climatica: calda o fredda importa poco, la cosa che preme maggiormente è attribuirla agli esseri umani ed al loro desiderio di civiltà, qualcosa che si ritiene evidentemente “peccaminoso” e cioè ostile ed alieno al nostro pianeta.
Nel 1989 lo stesso Stephen Schneider consigliò: “Per catturare
l’immaginazione del pubblico ... dobbiamo fare dichiarazioni drammatiche, semplificate, senza soffermarci sui dubbi che si possono avere. ... Ciascuno di noi deve decidere il giusto equilibrio tra l’essere efficaci e l’essere onesti”.
In retrospettiva si può tranquillamente concludere che è stata favorita “l’efficacia”: dal 1997 ciascuno dei circa 2000 climatologi americani (di cui solo 60 vantano un dottorato di ricerca) hanno annualmente ottenuto una media di un milione di dollari per la ricerca.
Su scala mondiale il bilancio
per la ricerca sul clima è di circa 5 miliardi di dollari l’anno.
È interessante notare come negli Stati Uniti gran parte di questo denaro sia speso nello studio dei cambiamenti climatici globali e le loro cause, mentre sembra che gli europei siano convinti che il riscaldamento provocato dall’uomo sia un fatto accertato e spendono questi soldi principalmente per studiare gli effetti di tale ipotetico riscaldamento.
I governi di molti paesi (esclusi Stati Uniti, l’Australia e la Russia) hanno sottoscritto il famigerato Protocollo di Kyoto per la riduzione obbligatoria dei combustibili fossili (petrolio, carbone e gas).
Se tale convenzione fosse universalmente applicata, la riduzione della temperatura mondiale sarebbe pressoché impercettibile, mentre l’economia subirebbe una contrazione evidente e drastica.
Applicando le restrizioni dettate dal Protocollo di Kyoto, nel 2100 la temperatura dovrebbe risultare più bassa di 0,2°C, oppure, per usare i dati dei climatologi del global warming, grazie a Kyoto, l’aumento di temperatura
previsto per il 2094 sarebbe rimandato fino al 2100.
Così il Protocollo di Kyoto serve per guadagnare 6 anni di tempo.
Le perdite dovute agli obblighi imposti dal protocollo, invece, raggiungerebbero nei soli Stati Uniti i 400 miliardi di dollari.
La riduzione del prodotto interno lordo mondiale, facendo una sommatoria per l’intero secolo, ammonterebbe a 1800 miliardi di dollari, mentre i benefici, presunti, derivanti dalla riduzione delle emissioni, si stimano sui 120 miliardi
di dollari.
Entro il 2050, in Giappone ed in Europa, il Prodotto nazionale lordo diminuirebbe dello 0,5% rispetto al 1994; nell’Europa orientale questa riduzione raggiungerebbe il 3% e in Russia il 3,4%.
Esperti ingaggiati dal governo canadese hanno concluso che l’applicazione del Protocollo di Kyoto esigerebbe un razionamento energetico del tipo di
quello applicato sulla benzina durante la seconda guerra mondiale.
[continua]
Articolo almeno del 2004: parla della campagna elettorale Bush / Kerry.
Noto che Mr LaRouche, il pittoresco politico americano dal cui sito provengono le illuminanti teorie del polacco e del professore tedesco di liceo comincia a far proseliti in Italia. Prima Ripley, ora highway to hell.
Per i 6 anni. In genere tutte le politiche di contenimento previste, da Kyoto a Stern a IPCC 2001 (le nuove politiche di contenimento proposte le sapremo più in là nel 2007) non prevedono un drastico abbassamento della temperatura nei prossimi decenni. Tutti sanno che non ci possiamo svegliare domattina e non produrre emissioni e tutti sanno (a parte il professore tedesco di liceo) che la Co2 immessa non se ne va prima di parecchi decenni.
Ma il problema è: che succede dal 2050 o 2100 in poi? Se ci arriviamo con politiche di contenimento avremo assicurato un futuro ai bisnipoti. In caso contrario ci si avvia su un piano inclinato che non sappiamo dove porta. Insomma: Kyoto non è tanto mirato a questa generazione (per la quale i giochi sono fatti) e nemmeno alla prossima (quella dei figli, per intenderci). Ma è mirato ai nipoti, al futuro.
Infine: visto che sembri dimostrare molta affinità con Ripley (se non altro per questi continui richiami a Larouche) potresti, se lo incontri, chiedergli:
1) In quale documento l'IPCC sostiene che i ghiacci del Polo Nord si scioglieranno entro il 2040
2) Quel rapporto norvegese che parlava di quell'avanzata spettacolare di quel ghiacciaio....
Ultima modifica di Jadan; 16/03/2007 alle 11:48
Maurizio
Rome, Italy
41:53:22N, 12:29:53E
[segue]
I cambiamenti climatici riflettono eventi planetari naturali
In realtà, gli sviluppi climatici recenti non sono qualcosa di insolito, ma riflettono il corso naturale degli eventi planetari.
Sin dai tempi più remoti, i cicli caldi e quelli freddi si avvicendano continuamente, estendendosi per archi di tempo variabili, da qualche milione fino a pochi anni.
Si tratta di cicli che dipendono da cambiamenti che si verificano al di fuori della terra, principalmente nel sole e nelle sue adiacenze.
I cicli che coprono un arco di pochi anni sono provocati da fattori terrestri, come l’esplosione di grandi vulcani, che immettono polveri nella stratosfera, ed il fenomeno noto come El Niño, che dipende dalle variazioni delle correnti oceaniche.
L’energia termica prodotta da radionuclidi naturali, presenti nel primo strato della crosta terrestre spesso un chilometro, fornivano circa 117 kilojoule per anno per metro quadrato della terra in età primitiva.
Come risultato del decadimento dei radionuclidi a lunga vita, la loro emissione si è ridotta a circa 33,4 kilojoule per metro quadrato per anno.
Eppure, questo calore di origine nucleare ricopre soltanto un ruolo minore tra i fattori terrestri, rispetto all’“effetto serra” prodotto da certi gas dell’atmosfera che assorbono le radiazioni solari riflesse dalla terra.
Senza effetto serra, la temperatura media dell’aria prossima alla superficie terrestre sarebbe mediamente di -18°C e non di +15°C, come è attualmente.
Il più importante di questi “gas serra” è il vapore acqueo, responsabile al 97-98% per cento di tutto l’effetto serra.
Gli altri gas in questione sono CO2, CH4, i CFC, N2O, O3.
Il più importante, il CO2, è responsabile soltanto del 2% di tutto l’effetto serra.
Il CO2 dovuto all’attività umana si aggira tra lo 0,05 e lo 0,25 per cento del totale.
Nel corso degli ultimi mille anni ci sono stati diversi periodi, di un cinquantennio circa, in cui la temperatura si è attestata su medie molto più elevate rispetto ai periodi più caldi del XX secolo, ed i cambiamenti sono stati molto più drastici di quelli recenti.
Questo risulta dalla revisione di oltre 240 pubblicazioni effettuata da un gruppo di scienziati del California Institute of Technology e dell’Università di Harvard.
Lo studio ha preso in esame i risultati dell’analisi di migliaia di campioni dei cosiddetti indicatori di temperatura indiretti (proxy records).
Comprendono dati storici, la misura della crescita annua degli anelli nei tronchi d’albero, cambiamenti degli isotopi nei campioni di ghiacci perenni prelevati in profondità, sedimenti lacustri, legname, corallo, stalagmiti, fossili biologici, cellulosa conservata nella torba, cambiamenti nei sedimenti sul fondo degli oceani, letti dei ghiacciai, temperature rilevate mediante trivellazione, variazioni della microfauna nei sedimenti, movimento dei fronti delle foreste, ecc.
Altri dati sono stati raccolti da misurazioni più dirette delle temperature rilevabili dalla cappa di ghiaccio della Groenlandia.
Questi studi contraddicono nettamente quello studio ben più modesto, che presenta la “curva a mazza da hockey”, secondo cui dopo una
tendenza stabile e leggermente al ribasso che caratterizzò tutto il precedente millennio si sarebbe verificata un’impennata nel XX secolo.
Questo studio, realizzato da Mann et al., si contrappone alle
numerosissime pubblicazioni in cui si documenta come negli
ultimi mille anni il fenomeno del Riscaldamento Medioevale interessò l’intero globo terrestre e che il periodo contemporaneo non si differenzia sostanzialmente dai cambiamenti climatici naturali verificatisi nel passato.
Tuttavia, lo studio di Mann et al. fu accluso al rapporto del 2001 (TAR)
dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change – organismo WMO-UNEP dell’ONU), come prova principale del fatto che il riscaldamento del XX secolo non ha precedenti, ed è stato usato dagli entusiasti del Protocollo di Kyoto per promuovere la propria causa.
In uno studio molto meticoloso, Soon e Baliunas, criticano en passant il lavoro del gruppo di Mann, in cui rilevano una calibrazione impropria dei dati indiretti (proxy) e altri errori, sia statistici che di metodo.
Una critica più diretta e approfondita allo stesso lavoro è quella mossa più recentemente da McIntyre e McKitrick, che arrivano a dimostrare
come le conclusioni di Mann et al. si basano su calcoli sbagliati,
dati scorretti e una selezione tendenziosa dei dati climatici
storici.
McIntyre e McKitrick, usando gli stessi dati usati da Michael Mann, hanno individuato diversi errori nel lavoro di Mann et al.
Ad esempio l’attribuzione di alcune misurazioni agli anni sbagliati, il riporto delle stesse identiche liste di cifre nelle tabelle, sotto indicatori indiretti (proxy) diversi e sotto anni diversi, l’impiego di dati obsoleti, che erano già stati aggiornati dai ricercatori che li avevano raccolti,
ecc. ecc.
Un esempio tipico di questi “errori” è l’interruzione al 1730 dei dati sulla temperatura dell’Inghilterra centrale, senza spiegazioni di sorta, sebbene i dati siano disponibili fino al 1659, occultando così un periodo molto freddo nel XVII secolo.
McIntyre e McKitrick non si sono limitati a criticare l’opera di Mann et al., ma, dopo aver corretto gli errori, hanno rianalizzato i dati secondo la stessa metodologia impiegata da Mann.
Questo nuovo studio aggiornato mostra come, nell’arco degli ultimi 600 anni, la temperatura del XX secolo non costituisca affatto un’eccezione.
Mostra poi anche che il rapporto del 2001 del IPCC, sulla scorta
dello studio di Mann et al., asserisca erroneamente che gli anni Novanta sono stati “probabilmente il decennio più caldo” ed il 1998 “l’anno più caldo del millennio”.
Prima di essere presentato per la pubblicazione, lo studio di McIntyre e di McKitrick è stato rivisto da rinomati esperti in matematica e statistica, geologia, paleoclimatologia e fisica (tra questi: R. Carter, R. Courtney, D. Douglas, H. Erren, C.Exxex, W. Kininmonth, e T.Landscheidt).
Successivamente lo studio è stato sottoposto alla revisione di studiosi indipendenti del prestigioso giornale britannico Energy & Environment.
A questo punto si pongono due domande.
Come ha fatto, quello studio di Mann et al. del 1998, a superare la revisione della rivista Nature?
E come ha fatto a superare la revisione dell’IPCC?
Si tratta di una storia che riflette tristemente la qualità del lavoro scientifico sponsorizzato da questo organismo.
Un contributo inatteso in questo scontro è recentemente pervenuto dal presidente Vladimir Putin, dal suo principale consigliere economico Andrei Illarionov, e da molti scienziati che hanno partecipato alla World Climate Change Conference tenutasi a Mosca tra il 29 settembre ed il 3 ottobre 2003.
In apertura dei lavori, Putin affermò che il Protocollo di Kyoto è "scientificamente errato” e che “persino attenendosi al 100% al Protocollo di Kyoto non si rimedierebbe al cambiamento climatico”.
Poi, in risposta a coloro che volevano che il protocollo si ratificasse
immediatamente, Putin disse quasi scherzando: “Spesso si dice che la Russia è un paese nordico e che se la temperatura salisse di due o tre gradi non sarebbe un gran male. Oltre al risparmio sui vestiti, gli esperti in scienze agrarie prevedono raccolti ancora più copiosi”.
Putin disse anche che Mosca “sarebbe riluttante a prendere decisioni solo su considerazioni finanziarie. La nostra prima considerazione va alle idee e agli obiettivi che ci siamo proposti e non ai benefici economici a breve termine ... Il governo sta considerando e studiando approfonditamente questa questione, tutti i problemi complessi e difficili connessi. La decisione sarà presa dopo il completamento di questo lavoro, e, naturalmente, terrà conto di quelli che sono gli interessi nazionali della Federazione Russa”.
Agli esperti presenti a Mosca, Illarionov ha quindi posto 10 domande con cui ha messo in discussione l’intera impalcatura della tesi del riscaldamento globale causato dall’uomo.
I sostenitori di tale ipotesi non hanno fornito risposte soddisfacenti.
Anche le questioni più elementari, sollevate dal prof. Yuri Izrael, presidente del comitato organizzativo, non hanno ottenuto risposta: “che sta succedendo davvero a questo pianeta, si scalda o si raffredda?” e “con la ratifica del Protocollo di Kyoto si migliorerà il clima, si stabilizzerà o si peggiorerà?”.
Alla fine della conferenza almeno due cose sono state chiarite:
1) il mondo scientifico è ancora lontano da quel “consenso” concorde tanto spesso vantato dall’IPCC sul riscaldamento climatico causato dall’uomo (il moderatore della conferenza ha riconosciuto che gli scienziati che si distanziano dal “consenso” di Kyoto sono stati più del 90% tra quelli che sono intervenuti durante i lavori).
(2) Senza la ratifica della Russia il Protocollo di Kyoto è lettera morta.
Lo spauracchio
I timori maggiori sono quelli provocati dalla prospettiva dello scioglimento dei ghiacciai montani e di quelli continentali, in Groenlandia e nell’Antartide, che come conseguenza dovrebbe portare ad un innalzamento del livello del mare di 29 centimetri entro il 2030 e di 71 centimetri entro il 2070.
Secondo alcune previsioni, questo innalzamento potrebbe, in certi casi, arrivare a 367 cm.
Allora le isole, le regioni costiere e alcune grandi metropoli sarebbero inondate ed intere nazioni costrette a spostarsi.
Il 10 ottobre 1991 il New York Times annunciò che già per il 2000 l’innalzamento degli oceani avrebbe costretto alcuni milioni di persone ad emigrare.
Ai predicatori di sventure non fa né caldo né freddo il fatto che nel Medio Evo, quando per qualche centinaio di anni la temperatura era superiore a quella attuale, né gli atolli delle Maldive né gli arcipelaghi del Pacifico subirono inondazioni catastrofiche.
Il livello del mare è in aumento da diverse centinaia di migliaia di anni e le cause di questo fenomeno non sono state ancora chiarite.
Negli ultimi cento anni questo aumento si aggira tra i 10 ed i 20 centimetri ma non risulta che dall’inizio del XX secolo ci sia stata un’accelerazione del fenomeno.
Si calcola che nei climi caldi il volume dell’acqua che evapora dagli oceani, e che poi precipita come neve sulle calotte polari, sia maggiore dell’acqua che arriva al mare dallo scioglimento delle masse di ghiaccio.
Dagli anni Settanta le masse di ghiaccio dell’Artico, della Groenlandia e dell’Antartide hanno cessato di ritirarsi ed hanno anzi ripreso a crescere.
Il 18 gennaio 2002 la rivista Science ha pubblicato i risultati di osservazioni radar dai satelliti e analisi di campioni di ghiaccio condotte dagli scienziati del CalTech’s Jet Propulsion Laboratory e dell’Università della California a Santa Cruz.
I risultati tendono ad indicare che lo scioglimento del ghiaccio antartico è in fase di rallentamento e in qualche caso si è fermato, e che questo ha portato come risultato ad un incremento dello spessore del ghiaccio continentale, per un volume stimato sui 26,8 miliardi di tonnellate annue.
Previsioni fasulle al computer
Diversamente da quello che hanno previsto attraverso simulazioni al computer i teorici del riscaldamento globale, le concentrazioni atmosferiche del biossido di carbonio nell’atmosfera, il gas più importante del fenomeno dell’effetto
serra prodotto dall’uomo, non sono correlate ai cambiamenti della temperatura dell’aria, vicina alla superficie, sia recentemente che nel lontano passato.
Questo è più visibile nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia, in cui alte concentrazioni di CO2, nelle bolle d’aria intrappolate nei ghiacci polari, appaiono dai 1000 ai 13000 anni dopo un cambiamento nella combinazione isotopica dell’H2O; e quest’ultimo aspetto denota un riscaldamento dell’atmosfera certo.
Nelle epoche preistoriche la concentrazione di CO2 nell’aria è stata significativamente più alta di quella attuale, senza influire drasticamente sulla temperatura.
Nell’Eocene, 50 milioni d’anni fa, questa concentrazione era sei volte maggiore di oggi, mentre la temperatura era solo 1,5°C più alta.
Nel Cretaceo, 90 milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era quasi 7 volte maggiore di oggi, e nel periodo carbonifero, 340 milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era quasi 12 volte più alta.
Quando la concentrazione di CO2 era 18 volte maggiore, 440 milioni di anni fa, nel periodo dell’Ordoviciano, esistevano ghiacciai estesi sui continenti di ambedue gli emisferi.
Alla fine del XIX secolo, la quantità di CO2 scaricato nell’atmosfera dall’intera industria mondiale era 13 volte inferiore a quella di oggi.
Ma allora si verificò un riscaldamento dovuto a cause naturali; ed ebbe fine la Piccola Glaciazione che si era protratta dal 1350 al 1880.
Non fu un fenomeno regionale circoscritto all’Europa, ma interessò l’intero pianeta.
In quest’epoca si festeggiava sul Tamigi gelato e si viaggiava dalla Polonia alla Svezia attraversando il Baltico in slitta, pernottando in apposite taverne costruite sul ghiaccio.
Quell’epoca è ben illustrata dai quadri di Pieter Breughel e Hendrick Avercamp.
Nelle montagne della Scozia il fronte della neve scendeva dai 300 ai 400 metri più in basso di quello attuale.
In prossimità dell’Islanda e della Groenlandia, il mare ghiacciato era tanto esteso da bloccare l’accesso alla colonia vichinga della Groenlandia, che fu definitivamente eliminata dalla Piccola Glaciazione.
Tutto questo fu preceduto da un periodo mite dal 900 al 1100.
La temperatura massima in questo periodo fu raggiunta intorno al 990.
Sia la Piccola Glaciazione che il precedente Riscaldamento del Medioevo non furono dei fenomeni regionali, così come cerca di far credere lo studio di Mann et al., ma furono di portata globale e furono notati nell’Atlantico settentrionale, in Europa, in Asia, in America del Sud, in Australia e nell’Antartide.
Durante il Riscaldamento del Medioevo, il fronte delle foreste in Canada si attestò a 130 chilometri più a Nord di quello attuale, e in Polonia, Inghilterra e Scozia c’erano vigne che producevano il vino per l’eucarestia e che scomparvero con l’avvento della Piccola Glaciazione.
La Piccola Glaciazione non è ancora finita del tutto.
Alcune specie di Diatomee stenotermali (che amano il caldo), che dominarono il Baltico durante il riscaldamento medievale, non sono ancora tornate in quelle acque.
Resti di colonie di Diatomee rinvenuti nei campioni dei sedimenti nei fondali dello specchio marino a nord dell’Islanda indicano come la temperatura più alta della superficie marina estiva nell’arco degli ultimi 4.600 anni, di circa 8,1°C, fu raggiunta 4.400 anni fa.
Dal caldo eccezionale raggiunto negli anni Quaranta, fino al 1975, il clima mondiale si è raffreddato di circa 0,3°C, sebbene le emissioni industriali di CO2 nello stesso periodo siano più che triplicate.
Dopo il 1975 le rilevazioni delle stazioni meteorologiche indicano come la temperatura globale media sia tornata di nuovo a salire, nonostante le emissioni di CO2 industriale siano diminuite.
Ma si scopre poi che probabilmente si tratta di misurazioni compromesse dall’espansione delle città, con il conseguente fenomeno delle “isole di calore urbano”.
Le stazioni meteorologiche, che in passato si collocavano ad una debita distanza dalle città, sono state inglobate nelle superfici urbane che si sono andate espandendo ed in cui, come è noto, la temperatura è più alta che in
campagna.
I rilevamenti termometrici di stazioni meteorologiche statunitensi ed europee distanti dai grandi insediamenti rivelano un abbassamento e non un aumento della temperatura, come dimostrano i dati del Goddard Institute della NASA recentemente analizzati da J. Daly.
Lo stesso vale per le regioni polari, nonostante i modelli computerizzati prevedano l’aumento maggiore della temperatura atmosferica.
Rajmund Przbylak, climatologo della Nicolaus Copernicus University di Torun in Polonia, spiega che nelle regioni polari “il riscaldamento e il raffreddamento si osservano più chiaramente ... dove dovrebbero verificarsi prima che in altre parti del mondo”.
Queste regioni, aggiunge “dovrebbero ricoprire un ruolo molto importante nell’accertamento dei cambiamenti mondiali”.
Przbylak ha raccolto dati che coprono il periodo dal 1874 al 2000, rilevati da 46 stazioni artiche e subartiche di istituti meteorologici e di altro tipo di cinque diverse nazionalità.
Il suo studio dimostra quanto segue:
(1) Nell’Artico le temperature maggiori furono raggiunte senza dubbio negli anni Trenta;
(2) persino negli anni Cinquanta le temperature erano ancora superiori a quelle degli anni Novanta;
(3) dalla metà degli anni Settanta la temperatura annua non presenta tendenze definite;
(4) la temperatura in Groenlandia, negli ultimi 10-20 anni è simile a quella caratteristica del XIX secolo.
Questi accertamenti corrispondono alle escursioni termiche verificatesi nell’Artico secondo i dati della NASA e in studi precedenti analizzati da Jaworowski.
In un nuovo studio della temperatura di superficie e della pressione al livello del mare, Polyakov ed altri hanno analizzato i dati rilevati tra il 1875 e il 2000 da 70 stazioni nella regione polare artica, al di sopra dei 62° parallelo.
I dati descrivono due fasi calde e due fredde di variabilità multidecennale, in una scala temporale tra i 50 e gli 80 anni, che si sovrappongono a una tendenza di fondo di riscaldamento più a lungo termine.
Questa variabilità sembra originarsi nell’Atlantico settentrionale ed è probabilmente indotta da lenti cambiamenti della circolazione termoalina oceanica e dalle complesse interazioni tra l’Artico e l’Atlantico settentrionale.
I due periodi più caldi nell’Artico si sono verificati tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta e negli anni Ottanta e Novanta.
Il primo di questi due fu più caldo del secondo.
Dal 1875 l’Artico si è riscaldato di 1,2°C e nell’arco di tempo per cui sono disponibili i dati, la tendenza al riscaldamento risulta di 0,094°C per decennio.
Per il XX secolo soltanto, questa tendenza si riduce a 0,05°C per decennio; ovvero, molto prossima alla tendenza dell’Emisfero settentrionale che è di 0,06°C per decennio.
Giacché la temperatura degli anni Trenta e Quaranta fu superiore a quella degli ultimi decenni, la tendenza dal periodo che va dal 1920 ad oggi è al raffreddamento.
Un’altra conclusione a cui giunge lo studio di Poliakov è che la tendenza al riscaldamento da sola non basta a spiegare la ritirata dei ghiacci artici osservata nel periodo tra gli anni Ottanta e Novanta, per cui la causa più probabile potrebbe essere dovuta ad una serie di cambiamenti dei flussi della pressione atmosferica, da anticiclonica a ciclonica.
I cambiamenti del ghiaccio marino sono dovuti a cause molto complesse ed è difficile identificare l’influenza relativamente recente dell’attività umana nel bilancio generale di fenomeni naturali che coprono periodi sia lunghi che brevi.
A seconda del periodo di tempo esaminato, i dati raccolti in archi di tempo limitati, da qualche anno a qualche decennio, indicano tendenze diverse.
Ad esempio, Winsor riferisce che tra il 1991 e il 1997 sette sottomarini che hanno percorso rotte diverse sotto i ghiacci artici e polari hanno potuto rilevare un leggero aumento dello spessore dei ghiacci marini.
In diversi studi condotti tra il 1999 e il 2003, Vinje ha rianalizzato le misurazioni dei ghiacci nel Mare del Nord condotte tra il 1864 e il 1998, ed è risalito indietro di quattro interi secoli.
L’estensione del ghiaccio marino in questo caso si è ridotta del 33% negli ultimi 135 anni.
Però, circa la metà di questa diminuzione è stata osservata nel periodo 1864-1900.
La prima metà di questo scioglimento si verificò quando la concentrazione di CO2 nell’aria salì di solo 7 parti per milione di volume (ppmv), mentre la seconda parte dello scioglimento avvenne quando la concentrazione di
CO2 era aumentata di 70 ppmv.
Questo lascia capire che l’aumento della concentrazione di CO2 non ha niente a che vedere con il manto del ghiaccio marino.
Vinje afferma che “lo scioglimento annuale del ghiaccio nelle dimensioni osservate dopo il 1930 non era stato visto nel Mare di Barents dal periodo di massima temperatura del XVIII secolo”, al quale fece seguito “una caduta della temperatura media di circa 0,6°C negli ultimi decenni del XVIII secolo”, che è stata poi recuperata “da un aumento di circa 0,7°C nel periodo 1800-2000”.
Di conseguenza, l’Emisfero Nord oggi non sembra molto più caldo (e l’estensione del ghiaccio sul Mare di Barents oggi non molto ridotta) rispetto al XVIII secolo, quando la concentrazione di CO2 nell’aria era – si vuole presumere – da 90 fino a 100 ppmv inferiore rispetto ad oggi.
Questo vale anche per gli studi condotti nell’Antartide, dove nel corso degli ultimi 18 anni è stata registrata un’espansione netta del ghiacchio marino verso Nord, pari a 0,011 gradi di latitudine verso Nord per anno, cosa che potrebbe indicare una tendenza all’aumento della massa del ghiaccio polare marino.
Alla Stazione Amundsen-Scott del Polo Sud, tra il 1957 ed il 2000 la temperatura è diminuita di circa 1,5°C, sebbene la concentrazione di CO2 sia passata da 313,7 a più di 360 ppmv.
Su scala globale le misure più obiettive della temperatura nella bassa troposfera condotte dal 1979 dai satelliti americani (liberi da interferenze delle “isole di calore”), non indicano un riscaldamento globale ma un modesto raffreddamento (-0,14°C per decennio, vedi figura 8).
(terza e ultima parte)
La questione dei raggi cosmici
Le variazioni della temperatura atmosferica non seguono i cambiamenti nelle concentrazioni di CO2 e di altri gas indicatori dell’effetto serra, ma sono piuttosto coerenti con i cambiamenti dell’attività solare, i cui cicli sono di 11 e 90 anni.
Questo è noto sin dal 1982, quando fu notato come nel periodo tra il 1000 ed il 1950 la temperatura dell’aria abbia seguito strettamente l’attività del nostro astro.
Dati riguardanti il periodo 1865-1985, pubblicati nel 1991, mostrano una corrispondenza sorprendente tra la temperatura dell’Emisfero Settentrionale e l’apparizione delle macchie solari, che avvengono in cicli di 11 anni e che danno una misura dell’attività solare.
Le variazioni della radianza solare osservate tra il 1880 ed il 1993 spiegano il 71% della variazione globale media della temperatura.
Nel 1997 però, fu subito evidente come ad influire in maniera più decisiva sulle fluttuazioni climatiche non fosse l’attività solare ma piuttosto fossero le radiazioni cosmiche.
Fu una gran sorpresa perché l’energia portata sulla terra dalle radiazioni cosmiche è di gran lunga minore di quella solare.
Il segreto sta nelle nuvole: l’influsso delle nuvole sul clima e sulla temperatura è più di cento volte maggiore di quello dell’ossido di carbonio.
Anche se la concentrazione di CO2 nell’aria dovesse raddoppiare, l’effetto serra che questo provoca potrebbe essere annullato del tutto già soltanto da un aumento dell’1% della nuvolosità: una maggiore nuvolosità comporta infatti una riflessione maggiore delle radiazioni solari che sono dirette verso la superficie del pianeta.
Nel 1997 gli scienziati danesi H. Svensmark e E. Friis-Christensen notarono come i cambiamenti della nuvolosità misurata dai satelliti geostazionari coincidessero perfettamente con i cambiamenti nell’intensità dei raggi cosmici che raggiungono la troposfera: più intensa è la radiazione e più ci
sono nuvole.
I raggi cosmici ionizzano le molecole d’aria, trasformandole in nuclei di condensazione per il vapore acqueo, dove si formano i cristalli di ghiaccio dai quali si formano le nuvole.
La quantità della radiazione cosmica che giunge sulla terra dalla nostra galassia e dallo spazio più remoto varia sotto l’influenza del cosiddetto vento solare.
La radiazione cosmica è creata da un plasma caldo proiettato fuori dalla corona solare, alla distanza di molti multipli del diametro solare, che porta particelle ionizzate e linee di campo magnetico.
Il vento solare, che si dirige verso l’esterno del sistema solare, allontana i raggi galattici dalla terra indebolendoli.
Quando il vento solare s’intensifica, le radiazioni cosmiche che giungono sulla terra sono di meno, si formano meno nuvole e diventa più caldo.
Quando il vento solare si attenua la Terra si raffredda.
È come se il sole aprisse e chiudesse un ombrello di nuvole sopra la nostra testa, controllando così il clima.
Il clima è in costante cambiamento.
I cicli in cui si alternano lunghi periodi freddi e più brevi periodi interglaciali, in cui la temperatura è più mite, si verificano con una certa regolarità.
La durata tipica dei cicli climatici negli ultimi 2 milioni di anni è stata di circa 100 mila anni, divisi in 90 mila anni per i periodi delle glaciazioni e 10 mila per quelli delle più miti fasi interglaciali.
In un dato ciclo le differenze di temperatura tra le fasi di caldo e di freddo si aggirano tra i 3°C e i 7°C.
L’attuale fase mite sta probabilmente volgendo al termine, visto che la durata media di queste fasi è già stata superata da 500 anni.
I periodi di transizione tra le fasi di clima caldo o freddo sono molto repentini.
Possono durare 20 o 50 anni, ma possono persino ridursi a 2 o 1 anno, e si verificano senza segni premonitori, praticamente senza preavviso.
Qual è il destino della terra?
È difficile prevedere l’avvento di una nuova glaciazione, nella quale i ghiacciai continentali cominceranno ad estendersi sulla Scandinavia, sull’Europa centro-settentrionale, sull’Asia, sul Canada e gli Stati Uniti, sul Cile e l’Argentina, coprendo questi territori con una lastra di ghiaccio che potrà raggiungere spessori di centinaia oppure migliaia di metri, quando i ghiacciai montani dell’Himalaia, delle Ande, delle Alpi, dell’Africa e dell’Indonesia si estenderanno di nuovo giù fin nelle valli.
Secondo alcuni climatologi questo dovrebbe accadere entro 50 o 150 anni.
Che ne sarà del Mar Baltico, dei laghi e delle foreste, degli animali, delle città, delle nazioni e di tutte le infrastrutture della civiltà moderna?
Sarà tutto spazzato via dai ghiacciai che avanzano, e poi tutto coperto dalle colline moreniche.
Il disastro sarà ben più grande delle punizioni apocalittiche previste per un riscaldamento globale che si vuole attribuire all’uomo.
Allo stesso modo lo studio di Friis-Christensen e Lassen mostra come osservazioni condotte in Russia consentano di stabilire un rapporto molto stretto tra la potenza media dei cicli dell’attività solare (che durano 10-11,5 anni) e la temperatura dell’aria di superficie che “lasciano ben poco spazio ad un influsso antropogenico sul clima terrestre”.
Bashkirtsev e Mashnich, fisici russi dell’Istituto per la fisica solareterrestre di Irkutsk, hanno scoperto che tra il 1882 e il 2000 la risposta della temperatura dell’aria sulla superficie aveva un ritardo sui cicli delle macchie solari di circa 3 anni ad Irkutsk e di 2 anni sull’intero globo.
Hanno scoperto inoltre che le temperature più basse dei primi anni del 1900 corrispondono ad una riduzione dell’attività solare, e che altre variazioni termometriche verificatesi fino alla fine del secolo hanno seguito le fluttuazioni dell’attività solare.
L’attuale ciclo delle macchie solari appare più debole degli altri precedenti ed i prossimi due cicli saranno ancora più deboli.
Bashkirtsev e Mashnich prevedono un nuovo minimo dell’attività solare nel periodo tra il 2021 e il 2026, a cui dovrà corrispondere un abbassamento della temperatura globale dell’aria di superficie.
Il passaggio dal caldo al freddo potrebbe essere già iniziato.
La temperatura media dell’aria a Irkutsk, che mostra una diretta corrispondenza con la media delle temperature globali annue dell’aria di superficie, ha raggiunto il massimo di +2,3°C nel 1997 e poi ha iniziato a scendere fino a +1,2°C nel 1998, a +0,7°C nel 1999 e a +0,4°C nel 2000.
Questa previsione concorda con i cambiamenti principali che si possono osservare in bioti nell’Oceano Pacifico, associati ad un ciclo climatico oscillante di circa 50 anni.
L’avvicinarsi di una nuova glaciazione rappresenta una vera sfida per l’umanità, molto più grande di altre sfide affrontate nella storia.
Prima che arrivi godiamoci il caldo, questo dono della natura, e dedichiamoci allo studio della fisica delle nuvole.
F. Hoyle e C. Wickramasinghe hanno recentemente scritto che “senza qualche mezzo artificiale per dare un feedback positivo al clima ... una possibile svolta verso condizioni da glaciazione sembra inevitabile”.
Queste condizioni “renderebbero inutilizzabili una gran parte delle regioni in cui si coltivano i prodotti alimentari e comporterebbe pertanto l’estinzione di gran parte della popolazione umana attuale”.
Secondo Hoyle e Wickramasinghe “coloro che si sono dedicati acriticamente ad agitare lo spauracchio di un esagerato effetto serra dovuto al riscaldamento della temperatura terrestre di uno o due gradi dovrebbero essere considerati in errore e pericolosi”, giacché il problema reale oggi “è un ritorno verso una glaciazione, e non il contrario”.
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