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I cambiamenti climatici riflettono eventi planetari naturali


In realtà, gli sviluppi climatici recenti non sono qualcosa di insolito, ma riflettono il corso naturale degli eventi planetari.

Sin dai tempi più remoti, i cicli caldi e quelli freddi si avvicendano continuamente, estendendosi per archi di tempo variabili, da qualche milione fino a pochi anni.

Si tratta di cicli che dipendono da cambiamenti che si verificano al di fuori della terra, principalmente nel sole e nelle sue adiacenze.

I cicli che coprono un arco di pochi anni sono provocati da fattori terrestri, come l’esplosione di grandi vulcani, che immettono polveri nella stratosfera, ed il fenomeno noto come El Niño, che dipende dalle variazioni delle correnti oceaniche.




L’energia termica prodotta da radionuclidi naturali, presenti nel primo strato della crosta terrestre spesso un chilometro, fornivano circa 117 kilojoule per anno per metro quadrato della terra in età primitiva.

Come risultato del decadimento dei radionuclidi a lunga vita, la loro emissione si è ridotta a circa 33,4 kilojoule per metro quadrato per anno.



Eppure, questo calore di origine nucleare ricopre soltanto un ruolo minore tra i fattori terrestri, rispetto all’“effetto serra” prodotto da certi gas dell’atmosfera che assorbono le radiazioni solari riflesse dalla terra.

Senza effetto serra, la temperatura media dell’aria prossima alla superficie terrestre sarebbe mediamente di -18°C e non di +15°C, come è attualmente.

Il più importante di questi “gas serra” è il vapore acqueo, responsabile al 97-98% per cento di tutto l’effetto serra.

Gli altri gas in questione sono CO2, CH4, i CFC, N2O, O3.

Il più importante, il CO2, è responsabile soltanto del 2% di tutto l’effetto serra.

Il CO2 dovuto all’attività umana si aggira tra lo 0,05 e lo 0,25 per cento del totale.
















Nel corso degli ultimi mille anni ci sono stati diversi periodi, di un cinquantennio circa, in cui la temperatura si è attestata su medie molto più elevate rispetto ai periodi più caldi del XX secolo, ed i cambiamenti sono stati molto più drastici di quelli recenti.

Questo risulta dalla revisione di oltre 240 pubblicazioni effettuata da un gruppo di scienziati del California Institute of Technology e dell’Università di Harvard.

Lo studio ha preso in esame i risultati dell’analisi di migliaia di campioni dei cosiddetti indicatori di temperatura indiretti (proxy records).

Comprendono dati storici, la misura della crescita annua degli anelli nei tronchi d’albero, cambiamenti degli isotopi nei campioni di ghiacci perenni prelevati in profondità, sedimenti lacustri, legname, corallo, stalagmiti, fossili biologici, cellulosa conservata nella torba, cambiamenti nei sedimenti sul fondo degli oceani, letti dei ghiacciai, temperature rilevate mediante trivellazione, variazioni della microfauna nei sedimenti, movimento dei fronti delle foreste, ecc.

Altri dati sono stati raccolti da misurazioni più dirette delle temperature rilevabili dalla cappa di ghiaccio della Groenlandia.

Questi studi contraddicono nettamente quello studio ben più modesto, che presenta la “curva a mazza da hockey”, secondo cui dopo una
tendenza stabile e leggermente al ribasso che caratterizzò tutto il precedente millennio si sarebbe verificata un’impennata nel XX secolo.

Questo studio, realizzato da Mann et al., si contrappone alle
numerosissime pubblicazioni in cui si documenta come negli
ultimi mille anni il fenomeno del Riscaldamento Medioevale interessò l’intero globo terrestre e che il periodo contemporaneo non si differenzia sostanzialmente dai cambiamenti climatici naturali verificatisi nel passato.

Tuttavia, lo studio di Mann et al. fu accluso al rapporto del 2001 (TAR)
dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change – organismo WMO-UNEP dell’ONU), come prova principale del fatto che il riscaldamento del XX secolo non ha precedenti, ed è stato usato dagli entusiasti del Protocollo di Kyoto per promuovere la propria causa.

In uno studio molto meticoloso, Soon e Baliunas, criticano en passant il lavoro del gruppo di Mann, in cui rilevano una calibrazione impropria dei dati indiretti (proxy) e altri errori, sia statistici che di metodo.

Una critica più diretta e approfondita allo stesso lavoro è quella mossa più recentemente da McIntyre e McKitrick, che arrivano a dimostrare
come le conclusioni di Mann et al. si basano su calcoli sbagliati,
dati scorretti e una selezione tendenziosa dei dati climatici
storici.

McIntyre e McKitrick, usando gli stessi dati usati da Michael Mann, hanno individuato diversi errori nel lavoro di Mann et al.

Ad esempio l’attribuzione di alcune misurazioni agli anni sbagliati, il riporto delle stesse identiche liste di cifre nelle tabelle, sotto indicatori indiretti (proxy) diversi e sotto anni diversi, l’impiego di dati obsoleti, che erano già stati aggiornati dai ricercatori che li avevano raccolti,
ecc. ecc.

Un esempio tipico di questi “errori” è l’interruzione al 1730 dei dati sulla temperatura dell’Inghilterra centrale, senza spiegazioni di sorta, sebbene i dati siano disponibili fino al 1659, occultando così un periodo molto freddo nel XVII secolo.

McIntyre e McKitrick non si sono limitati a criticare l’opera di Mann et al., ma, dopo aver corretto gli errori, hanno rianalizzato i dati secondo la stessa metodologia impiegata da Mann.

Questo nuovo studio aggiornato mostra come, nell’arco degli ultimi 600 anni, la temperatura del XX secolo non costituisca affatto un’eccezione.

Mostra poi anche che il rapporto del 2001 del IPCC, sulla scorta
dello studio di Mann et al., asserisca erroneamente che gli anni Novanta sono stati “probabilmente il decennio più caldo” ed il 1998 “l’anno più caldo del millennio”.

Prima di essere presentato per la pubblicazione, lo studio di McIntyre e di McKitrick è stato rivisto da rinomati esperti in matematica e statistica, geologia, paleoclimatologia e fisica (tra questi: R. Carter, R. Courtney, D. Douglas, H. Erren, C.Exxex, W. Kininmonth, e T.Landscheidt).

Successivamente lo studio è stato sottoposto alla revisione di studiosi indipendenti del prestigioso giornale britannico Energy & Environment.



A questo punto si pongono due domande.

Come ha fatto, quello studio di Mann et al. del 1998, a superare la revisione della rivista Nature?

E come ha fatto a superare la revisione dell’IPCC?

Si tratta di una storia che riflette tristemente la qualità del lavoro scientifico sponsorizzato da questo organismo.










Un contributo inatteso in questo scontro è recentemente pervenuto dal presidente Vladimir Putin, dal suo principale consigliere economico Andrei Illarionov, e da molti scienziati che hanno partecipato alla World Climate Change Conference tenutasi a Mosca tra il 29 settembre ed il 3 ottobre 2003.


In apertura dei lavori, Putin affermò che il Protocollo di Kyoto è "scientificamente errato” e che “persino attenendosi al 100% al Protocollo di Kyoto non si rimedierebbe al cambiamento climatico”.

Poi, in risposta a coloro che volevano che il protocollo si ratificasse
immediatamente, Putin disse quasi scherzando: “Spesso si dice che la Russia è un paese nordico e che se la temperatura salisse di due o tre gradi non sarebbe un gran male. Oltre al risparmio sui vestiti, gli esperti in scienze agrarie prevedono raccolti ancora più copiosi”.

Putin disse anche che Mosca “sarebbe riluttante a prendere decisioni solo su considerazioni finanziarie. La nostra prima considerazione va alle idee e agli obiettivi che ci siamo proposti e non ai benefici economici a breve termine ... Il governo sta considerando e studiando approfonditamente questa questione, tutti i problemi complessi e difficili connessi. La decisione sarà presa dopo il completamento di questo lavoro, e, naturalmente, terrà conto di quelli che sono gli interessi nazionali della Federazione Russa”.


Agli esperti presenti a Mosca, Illarionov ha quindi posto 10 domande con cui ha messo in discussione l’intera impalcatura della tesi del riscaldamento globale causato dall’uomo.

I sostenitori di tale ipotesi non hanno fornito risposte soddisfacenti.

Anche le questioni più elementari, sollevate dal prof. Yuri Izrael, presidente del comitato organizzativo, non hanno ottenuto risposta: “che sta succedendo davvero a questo pianeta, si scalda o si raffredda?” e “con la ratifica del Protocollo di Kyoto si migliorerà il clima, si stabilizzerà o si peggiorerà?”.

Alla fine della conferenza almeno due cose sono state chiarite:

1) il mondo scientifico è ancora lontano da quel “consenso” concorde tanto spesso vantato dall’IPCC sul riscaldamento climatico causato dall’uomo (il moderatore della conferenza ha riconosciuto che gli scienziati che si distanziano dal “consenso” di Kyoto sono stati più del 90% tra quelli che sono intervenuti durante i lavori).

(2) Senza la ratifica della Russia il Protocollo di Kyoto è lettera morta.



















Lo spauracchio

I timori maggiori sono quelli provocati dalla prospettiva dello scioglimento dei ghiacciai montani e di quelli continentali, in Groenlandia e nell’Antartide, che come conseguenza dovrebbe portare ad un innalzamento del livello del mare di 29 centimetri entro il 2030 e di 71 centimetri entro il 2070.

Secondo alcune previsioni, questo innalzamento potrebbe, in certi casi, arrivare a 367 cm.

Allora le isole, le regioni costiere e alcune grandi metropoli sarebbero inondate ed intere nazioni costrette a spostarsi.

Il 10 ottobre 1991 il New York Times annunciò che già per il 2000 l’innalzamento degli oceani avrebbe costretto alcuni milioni di persone ad emigrare.


Ai predicatori di sventure non fa né caldo né freddo il fatto che nel Medio Evo, quando per qualche centinaio di anni la temperatura era superiore a quella attuale, né gli atolli delle Maldive né gli arcipelaghi del Pacifico subirono inondazioni catastrofiche.

Il livello del mare è in aumento da diverse centinaia di migliaia di anni e le cause di questo fenomeno non sono state ancora chiarite.

Negli ultimi cento anni questo aumento si aggira tra i 10 ed i 20 centimetri ma non risulta che dall’inizio del XX secolo ci sia stata un’accelerazione del fenomeno.

Si calcola che nei climi caldi il volume dell’acqua che evapora dagli oceani, e che poi precipita come neve sulle calotte polari, sia maggiore dell’acqua che arriva al mare dallo scioglimento delle masse di ghiaccio.

Dagli anni Settanta le masse di ghiaccio dell’Artico, della Groenlandia e dell’Antartide hanno cessato di ritirarsi ed hanno anzi ripreso a crescere.

Il 18 gennaio 2002 la rivista Science ha pubblicato i risultati di osservazioni radar dai satelliti e analisi di campioni di ghiaccio condotte dagli scienziati del CalTech’s Jet Propulsion Laboratory e dell’Università della California a Santa Cruz.

I risultati tendono ad indicare che lo scioglimento del ghiaccio antartico è in fase di rallentamento e in qualche caso si è fermato, e che questo ha portato come risultato ad un incremento dello spessore del ghiaccio continentale, per un volume stimato sui 26,8 miliardi di tonnellate annue.










Previsioni fasulle al computer

Diversamente da quello che hanno previsto attraverso simulazioni al computer i teorici del riscaldamento globale, le concentrazioni atmosferiche del biossido di carbonio nell’atmosfera, il gas più importante del fenomeno dell’effetto
serra prodotto dall’uomo, non sono correlate ai cambiamenti della temperatura dell’aria, vicina alla superficie, sia recentemente che nel lontano passato.

Questo è più visibile nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia, in cui alte concentrazioni di CO2, nelle bolle d’aria intrappolate nei ghiacci polari, appaiono dai 1000 ai 13000 anni dopo un cambiamento nella combinazione isotopica dell’H2O; e quest’ultimo aspetto denota un riscaldamento dell’atmosfera certo.

Nelle epoche preistoriche la concentrazione di CO2 nell’aria è stata significativamente più alta di quella attuale, senza influire drasticamente sulla temperatura.

Nell’Eocene, 50 milioni d’anni fa, questa concentrazione era sei volte maggiore di oggi, mentre la temperatura era solo 1,5°C più alta.

Nel Cretaceo, 90 milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era quasi 7 volte maggiore di oggi, e nel periodo carbonifero, 340 milioni di anni fa, la concentrazione di CO2 era quasi 12 volte più alta.

Quando la concentrazione di CO2 era 18 volte maggiore, 440 milioni di anni fa, nel periodo dell’Ordoviciano, esistevano ghiacciai estesi sui continenti di ambedue gli emisferi.

Alla fine del XIX secolo, la quantità di CO2 scaricato nell’atmosfera dall’intera industria mondiale era 13 volte inferiore a quella di oggi.

Ma allora si verificò un riscaldamento dovuto a cause naturali; ed ebbe fine la Piccola Glaciazione che si era protratta dal 1350 al 1880.

Non fu un fenomeno regionale circoscritto all’Europa, ma interessò l’intero pianeta.

In quest’epoca si festeggiava sul Tamigi gelato e si viaggiava dalla Polonia alla Svezia attraversando il Baltico in slitta, pernottando in apposite taverne costruite sul ghiaccio.

Quell’epoca è ben illustrata dai quadri di Pieter Breughel e Hendrick Avercamp.

Nelle montagne della Scozia il fronte della neve scendeva dai 300 ai 400 metri più in basso di quello attuale.

In prossimità dell’Islanda e della Groenlandia, il mare ghiacciato era tanto esteso da bloccare l’accesso alla colonia vichinga della Groenlandia, che fu definitivamente eliminata dalla Piccola Glaciazione.

Tutto questo fu preceduto da un periodo mite dal 900 al 1100.

La temperatura massima in questo periodo fu raggiunta intorno al 990.




Sia la Piccola Glaciazione che il precedente Riscaldamento del Medioevo non furono dei fenomeni regionali, così come cerca di far credere lo studio di Mann et al., ma furono di portata globale e furono notati nell’Atlantico settentrionale, in Europa, in Asia, in America del Sud, in Australia e nell’Antartide.

Durante il Riscaldamento del Medioevo, il fronte delle foreste in Canada si attestò a 130 chilometri più a Nord di quello attuale, e in Polonia, Inghilterra e Scozia c’erano vigne che producevano il vino per l’eucarestia e che scomparvero con l’avvento della Piccola Glaciazione.






La Piccola Glaciazione non è ancora finita del tutto.

Alcune specie di Diatomee stenotermali (che amano il caldo), che dominarono il Baltico durante il riscaldamento medievale, non sono ancora tornate in quelle acque.

Resti di colonie di Diatomee rinvenuti nei campioni dei sedimenti nei fondali dello specchio marino a nord dell’Islanda indicano come la temperatura più alta della superficie marina estiva nell’arco degli ultimi 4.600 anni, di circa 8,1°C, fu raggiunta 4.400 anni fa.





Dal caldo eccezionale raggiunto negli anni Quaranta, fino al 1975, il clima mondiale si è raffreddato di circa 0,3°C, sebbene le emissioni industriali di CO2 nello stesso periodo siano più che triplicate.

Dopo il 1975 le rilevazioni delle stazioni meteorologiche indicano come la temperatura globale media sia tornata di nuovo a salire, nonostante le emissioni di CO2 industriale siano diminuite.


Ma si scopre poi che probabilmente si tratta di misurazioni compromesse dall’espansione delle città, con il conseguente fenomeno delle “isole di calore urbano”.

Le stazioni meteorologiche, che in passato si collocavano ad una debita distanza dalle città, sono state inglobate nelle superfici urbane che si sono andate espandendo ed in cui, come è noto, la temperatura è più alta che in
campagna.

I rilevamenti termometrici di stazioni meteorologiche statunitensi ed europee distanti dai grandi insediamenti rivelano un abbassamento e non un aumento della temperatura, come dimostrano i dati del Goddard Institute della NASA recentemente analizzati da J. Daly.

Lo stesso vale per le regioni polari, nonostante i modelli computerizzati prevedano l’aumento maggiore della temperatura atmosferica.

Rajmund Przbylak, climatologo della Nicolaus Copernicus University di Torun in Polonia, spiega che nelle regioni polari “il riscaldamento e il raffreddamento si osservano più chiaramente ... dove dovrebbero verificarsi prima che in altre parti del mondo”.

Queste regioni, aggiunge “dovrebbero ricoprire un ruolo molto importante nell’accertamento dei cambiamenti mondiali”.

Przbylak ha raccolto dati che coprono il periodo dal 1874 al 2000, rilevati da 46 stazioni artiche e subartiche di istituti meteorologici e di altro tipo di cinque diverse nazionalità.

Il suo studio dimostra quanto segue:

(1) Nell’Artico le temperature maggiori furono raggiunte senza dubbio negli anni Trenta;

(2) persino negli anni Cinquanta le temperature erano ancora superiori a quelle degli anni Novanta;

(3) dalla metà degli anni Settanta la temperatura annua non presenta tendenze definite;

(4) la temperatura in Groenlandia, negli ultimi 10-20 anni è simile a quella caratteristica del XIX secolo.

Questi accertamenti corrispondono alle escursioni termiche verificatesi nell’Artico secondo i dati della NASA e in studi precedenti analizzati da Jaworowski.

In un nuovo studio della temperatura di superficie e della pressione al livello del mare, Polyakov ed altri hanno analizzato i dati rilevati tra il 1875 e il 2000 da 70 stazioni nella regione polare artica, al di sopra dei 62° parallelo.

I dati descrivono due fasi calde e due fredde di variabilità multidecennale, in una scala temporale tra i 50 e gli 80 anni, che si sovrappongono a una tendenza di fondo di riscaldamento più a lungo termine.

Questa variabilità sembra originarsi nell’Atlantico settentrionale ed è probabilmente indotta da lenti cambiamenti della circolazione termoalina oceanica e dalle complesse interazioni tra l’Artico e l’Atlantico settentrionale.


I due periodi più caldi nell’Artico si sono verificati tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta e negli anni Ottanta e Novanta.

Il primo di questi due fu più caldo del secondo.

Dal 1875 l’Artico si è riscaldato di 1,2°C e nell’arco di tempo per cui sono disponibili i dati, la tendenza al riscaldamento risulta di 0,094°C per decennio.

Per il XX secolo soltanto, questa tendenza si riduce a 0,05°C per decennio; ovvero, molto prossima alla tendenza dell’Emisfero settentrionale che è di 0,06°C per decennio.

Giacché la temperatura degli anni Trenta e Quaranta fu superiore a quella degli ultimi decenni, la tendenza dal periodo che va dal 1920 ad oggi è al raffreddamento.







Un’altra conclusione a cui giunge lo studio di Poliakov è che la tendenza al riscaldamento da sola non basta a spiegare la ritirata dei ghiacci artici osservata nel periodo tra gli anni Ottanta e Novanta, per cui la causa più probabile potrebbe essere dovuta ad una serie di cambiamenti dei flussi della pressione atmosferica, da anticiclonica a ciclonica.

I cambiamenti del ghiaccio marino sono dovuti a cause molto complesse ed è difficile identificare l’influenza relativamente recente dell’attività umana nel bilancio generale di fenomeni naturali che coprono periodi sia lunghi che brevi.

A seconda del periodo di tempo esaminato, i dati raccolti in archi di tempo limitati, da qualche anno a qualche decennio, indicano tendenze diverse.

Ad esempio, Winsor riferisce che tra il 1991 e il 1997 sette sottomarini che hanno percorso rotte diverse sotto i ghiacci artici e polari hanno potuto rilevare un leggero aumento dello spessore dei ghiacci marini.

In diversi studi condotti tra il 1999 e il 2003, Vinje ha rianalizzato le misurazioni dei ghiacci nel Mare del Nord condotte tra il 1864 e il 1998, ed è risalito indietro di quattro interi secoli.

L’estensione del ghiaccio marino in questo caso si è ridotta del 33% negli ultimi 135 anni.

Però, circa la metà di questa diminuzione è stata osservata nel periodo 1864-1900.

La prima metà di questo scioglimento si verificò quando la concentrazione di CO2 nell’aria salì di solo 7 parti per milione di volume (ppmv), mentre la seconda parte dello scioglimento avvenne quando la concentrazione di
CO2 era aumentata di 70 ppmv.

Questo lascia capire che l’aumento della concentrazione di CO2 non ha niente a che vedere con il manto del ghiaccio marino.



Vinje afferma che “lo scioglimento annuale del ghiaccio nelle dimensioni osservate dopo il 1930 non era stato visto nel Mare di Barents dal periodo di massima temperatura del XVIII secolo”, al quale fece seguito “una caduta della temperatura media di circa 0,6°C negli ultimi decenni del XVIII secolo”, che è stata poi recuperata “da un aumento di circa 0,7°C nel periodo 1800-2000”.

Di conseguenza, l’Emisfero Nord oggi non sembra molto più caldo (e l’estensione del ghiaccio sul Mare di Barents oggi non molto ridotta) rispetto al XVIII secolo, quando la concentrazione di CO2 nell’aria era – si vuole presumere – da 90 fino a 100 ppmv inferiore rispetto ad oggi.





Questo vale anche per gli studi condotti nell’Antartide, dove nel corso degli ultimi 18 anni è stata registrata un’espansione netta del ghiacchio marino verso Nord, pari a 0,011 gradi di latitudine verso Nord per anno, cosa che potrebbe indicare una tendenza all’aumento della massa del ghiaccio polare marino.



Alla Stazione Amundsen-Scott del Polo Sud, tra il 1957 ed il 2000 la temperatura è diminuita di circa 1,5°C, sebbene la concentrazione di CO2 sia passata da 313,7 a più di 360 ppmv.



Su scala globale le misure più obiettive della temperatura nella bassa troposfera condotte dal 1979 dai satelliti americani (liberi da interferenze delle “isole di calore”), non indicano un riscaldamento globale ma un modesto raffreddamento (-0,14°C per decennio, vedi figura 8).