
Originariamente Scritto da
Perlecano
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burian br sono un grande sostenitore della statistica, ma da inizio pandemia l'affidamento quasi esclusivo a deduzioni ricavabili da essa mi ha portato a due grossi abbagli:
- la distribuzione geografica della pandemia: pensavo che un'eventuale diffusione al di fuori della Cina si sarebbe verificata dapprima nei Paesi asiatici confinanti, poi progressivamente avrebbe potuto esserci, in assenza di significative misure di contrasto, una diffusione verso l'Asia centrale, poi l'Asia minore, poi l'approdo in Europa. Questo perchè avevo in testa l'ondata di influenza aviaria del 2005-2006, dove la diffusione geografica fu progressiva e non a "spot" pandemici in giro per il mondo... però dai vettori animali ce lo si doveva aspettare, gli uccelli non prendono gli aerei, gli uccelli non fanno parte di società globalizzate e con un'intraconnessione su larga scala. Mi aspettavo un'eventuale diffusione pandemica di Covid geograficamente progressiva e "prevedibile", paragonabile alla rotta tenuta dall'aviaria 14 anni prima. Grave errore. (Anche l'influenza suina del 2009 mi aveva tratto in inganno: scoperta e diffusasi in origine in Messico, poi nei
limitrofi Stati Uniti dove a pandemia conclusa si contò in effetti il più alto numero di contagi tra gli Stati del mondo... ma gli USA combinano elevato sviluppo umano a popolazione molto numerosa, quindi è normale che le notificazioni sanitarie surclassino quelle di qualsiasi altro Paese del mondo, perlomeno sul lungo termine... però non ci avevo pensato, avevo detto "picchia più duro tra USA e America centrale perchè è partita da lì").
- l'immunizzazione vaccinale: avevo sempre inteso che anche sviluppando vaccini molto mirati, la loro efficacia potesse sempre essere (tendenzialmente, pur con le ovvie differenze interindividuali) inferiore a quella dell'infezione naturale, e che al massimo si potesse tendere ad un'immunizzazione paragonabile a quella di detta infezione naturale. Invece, a quanto pare, la capacità immunogenica del vaccino sa anche essere superiore a quella delle infezioni vere e proprie. Questo preconcetto, similmente a quello del punto di cui sopra, derivava da un'anelastica analogia con i precedenti medici: erano pochissimi i vaccini con immunizzazione paragonabile a quella dell'infezione naturale, ed era limitata ai casi in cui l'immunità dopo essersi ammalati è talmente ineludibile (morbillo, varicella, ecc.) che anche conferendo con il vaccino un boost minore di quello dell'infezione naturale, si cadeva in piedi e si otteneva un'immunità meno strabiliante ma comunque permanente. E poi mi ero tanto fissato con il discorso "virus vivo attenuato e virus ucciso", che erano fondamentalmente le due condizioni di base di tutti o quasi i preparati vaccinali per le infezioni virali ("se il virus è ucciso o indebolito, non può immunizzare quanto un virus vivo e vegeto", pensavo)... mentre il discorso del RNA messaggero, della proposizione della proteina Spike anteposta alla presentazione del virus nella sua interezza, ha sparigliato queste mie convinzioni (che pur rimangono, in linea di massima, per i vaccini che non prevedono inoculazione selettiva del RNA messaggero). Comunque non è scontato che l'immunità vaccinale possa durare di più di quella di chi si ammala di Covid, diciamo però che ci sono indizi in tal senso e si spera che con il tempo questi possano diventare delle evidenze robuste.
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